Federica Arnoldi
Ieri ho dato una zuccata contro il pavimento che metà poteva bastare. Chè mal, ho visto la neve ma all’incontrario, non scendeva, saliva. Come ho fatto a cadere? È per colpa delle ciabatte che mi ha dato la polacca. Sono da buttare, lo dico sempre. Quale polacca? Dèm, la polacca della Veronica, sa Veronica quanti anni ha fatto? Centodue. Sì ma mi dica Lei che maniera è di vivere, sarà mica bello, la capés nigót, niente. Ah, ma se c’è da controllare quanto mangia la polacca allora sì che si sveglia, la cuntròla töt, tutto. E io le dico sempre, ma lasciala mangiare ché quella è alta e forte, hai voglia a riempirla tutta. Insomma, che male!, devo aver fatto qualche torto a Quello in Alto, forse sono stata troppo superba, mi vantavo perché avevo appena fatto la visita dal dottore, sa cosa prendo io? Il Malox, punto e basta. Poi c’è l’anemia, ma quella… cosa ci vuol fare, è tutta la vita che sono così, quanta carne mi davano da mangiare da piccolina! Noi eravamo abbastanza ricchi, mica come la famiglia di mio marito, loro dovevano rubare i salami, noi avevamo le belle pagnotte calde, mio papà l’era prestinér prima della guerra. Poi si è guastato tutto.
Le dirò, se devo essere sincera proprio fino in fondo: mai fidarsi delle polacche, e se lo dico ci sarà un motivo.
Mi chiedono sempre di raccontare la storia di quando sono andata a prendere mio marito in Austria, ma io racconto solo una parte, se dovessi dire com’è stata per davvero, guardi… lo sanno in pochi. Adesso lo saprà anche Lei perché ho voglia di raccontargliela tutta, se ha tempo per un caffè prima di andare. Ha finito coi vetri? Così domani giriamo i materassi.
Del resto io non ho parlato per tanti anni, ma lui adesso non c’è più, se guarda giù e sente, al ma scüserà.
Da qualche giorno pensavo che tutto sommato non mi posso lamentare per l’età che ho, che sono 38 ma scritti all’incontrario. E allora Quello in Alto mi ha voluta punire, ha fatto bene. C’erano tutti questi filamenti bianchi che salivano dal pavimento. C’era la neve come quando Ginetto è partito soldato. Ci siamo sposati per procura.
Sono stata lì in terra per dieci minuti, ho pensato adesso muoio, sarebbe anche ora, invece no, ho rivisto Ginetto che scendeva dal treno il giorno del mercato, mi veniva sempre a fare visita prima della guerra.
Poi è arrivato il figlio della Veronica, Giancarlo, mi ha sollevata. Per fortuna che ho perso qualche chilo, non riesco più a mangiare le pignate di una volta, altrimenti che fatica, poveretto! A un certo punto è arrivata anche la Donatella, mi volevano portare all’ospedale ma io gli ho detto di no, lasciatemi qui bella quieta. Sono andata in camera e ho tirato fuori dall’armadio la lettera.
Lui le sapeva scrivere le lettere, io no. Quando andavo a scuola facevo i temi ma li copiavo dalle canzoni. La maestra mi sgridava perché diceva che quelle cose non si potevano scrivere, ma come non si possono scrivere, qualcuno le aveva già scritte, allora sì che si poteva, ma guai a fare qualcosa di diverso, le prendevi anche a casa poi.
Fatto sta che non mi ha più scritto. Prima scriveva e qualche volta tornava. Era in Grecia quando i tedeschi l’hanno preso. Non ho più avuto notizie da quando l’hanno portato in Austria per lavorare, facevano i pneumatici.
Allora siamo andate, io e la mia amica, siamo andate da questa qui, che era una signora che faceva le carte, figurarsi se io ci credo, però ci aveva preso, dice guarda che una bionda te lo sta portando via. Poi mi sono ammalata, il tifo, e mentre ero in ospedale, mio papà e mia mamma hanno ricevuto la lettera, dice che non ne vuole sapere di me, di non scrivere più. Quando sono arrivata a casa, me l’hanno detto, guarda che ti ha scritto, non ti vuole più. Sulla busta c’era il mio nome da signorina, Olga Pelamatti, ma dopo qualche mese è nata Luigina, sua figlia, figüres te, altro che signorina.
Un giorno, mentre andavo al linificio, sono inciampata, proprio come ieri, sì, ma quella volta ho fatto bene a cadere, perché sono finita con il naso dentro un biglietto. Era un pezzo di giornale, c’era su l’invito di Mussolini alle famiglie dei militari presi: si poteva andare in Austria per lavorare insieme, difatti una mattina ho preso la corriera per Bergamo per farmi dare il giorno della partenza.
C’era uno apposta che portava tutta la comitiva, eravamo parecchi, chi per una cosa, chi per un’altra, e dovevamo viaggiare col treno, ma i treni li bombardavano sempre, ti addormentavi, credevi di avere raggiunto un tal posto, e invece eri tornato indietro perché c’erano gli impedimenti. Abbiamo impiegato più di quindici giorni per andare là, sempre avanti e indietro, e alla fine siamo arrivati in Austria. Ci hanno portato al campo, lì davanti c’era il binario dove lasciavano giù i polacchi, gli ungheresi, tutti quelli destinati al lavoro, ma noi siamo riusciti a uscire dalla confusione e abbiamo preso ancora il treno.
Avevo l’indirizzo con me, sapevo di essere a una ventina di chilometri da Ginetto. Prima Vienna, poi da Vienna a Traiskirchen, dove c’era la Semperit, lo stabilimento dei pneumatici, e mio marito lavorava lì dentro. Erano centocinquanta italiani, abitavano in un vecchio mulino che avevano trasformato in una specie di caserma, uscivano solo per andare a lavorare. Poi c’erano le baracche, dove stavano i polacchi, gli ungheresi, i russi, tutta gente che lavorava lì. Io non ho mai visto le cose brutte, forse perché il direttore era bravo, così dicevano.
Quando sono arrivata, ho chiesto a due ragazzi che portavano il carbone, siete italiani? Sì, dice uno. Hanno lasciato giù il secchio e sono tornati in ditta per avvisare. Nel frattempo sono salita su da loro e là mi hanno circondata per sapere in Italia che cosa succede, in Italia ci sono i bombardamenti, figlioli cari.
Il mio primo bombardamento è stato a Milano, in ottobre. All’epoca facevo come Lei: andavo nelle case a fare i mestieri, stiravo anche, perché ero andata a scuola, sapevo stirare tutto io, mi piaceva. Tornando indietro dal lavoro sono andata a trovare una parente, la Moretti, siamo rimaste sotto il bombardamento, a Cassina de’ Pecchi. Si è fermato il tram e ci siamo messe in un fosso, asciutto nè, abbiamo visto l’apparecchio cadere.
Poi hanno chiamato Ginetto, lui era convinto che fosse qualche amico del paese, si sarà preso un colpo. Ci siamo salutati ma non potevo fermarmi perché non ero in regola, ero scappata senza fare la disinfezione, allora il direttore ha scritto una lettera da consegnare a quelli del campo e difatti sono ritornata là, mi hanno trattenuta per farmi il trattamento completo, e poi sono ritornata alla Semperit.
Il giorno dopo ho iniziato a lavorare, mi davano i copertoni delle biciclette ma io volevo quelli dei camion, allora invece di fare in un modo, facevo nell’altro e glieli rovinavo tutti per dispetto. È stato mentre gliene stavo mettendo lì un altro tutto sformato che mi hanno raccontato della polacca. Lui non aveva il coraggio di dirmelo ma gliel’ho fatto venire io: sì, dice, la vuoi vedere? No.
Aveva gli occhi chiari, così mi hanno detto. Anche mia nipote, sa? Le donne della nostra famiglia sono tutte more, una più bella dell’altra, ma cosa vuol farci, i dispiaceri, anche se li tieni nascosti, a un certo punto da qualche parte escono.
Poi è arrivato il fronte e i tedeschi hanno iniziato a prendere paura. Una notte che i nostri montavano di guardia, abbiamo sentito un botto fortissimo, i tedeschi sono spariti, le guardie non si sono più viste e noi eravamo liberi. Siamo scesi tutti in un attimo, abbiamo formato una fila perché eravamo abituati così, e siamo andati a Baden. La piazza era piena di persone, si salvi chi può, noi abbiamo formato il nostro gruppo di simpatie e siamo partiti. Era Pasqua.
Arrivava sera e si erano fatti trenta ma anche quaranta chilometri a piedi, strada facendo si rubava dappertutto. Entravamo nelle case mentre la gente se ne andava con le carrozzine dei bambini cariche di roba.
Una volta ho trovato un cavallo morto tutto intero, si vede che è successo qualcosa mentre lo stavano aprendo e sono dovuti scappare. Sono stata tutta la notte a tagliare bistecche, abbiamo rotto le gambe dei tavoli, abbiamo acceso la stufa e abbiamo mangiato. Non conoscevamo i pericoli, poteva essere avvelenato quel cavallo, perché le cattiverie le hanno sempre fatte, ma oramai si continuava a rubare. Dovevamo caricare la roba da qualche parte, abbiamo preso uno di quei carri dove si attaccano i buoi, solo che i buoi in quel caso eravamo noi, facevamo un po’ per uno a tirare. Alla fine della fiera eravamo pieni di roba, perfino il mangiare degli inglesi, che avevamo portato via insieme a una bella pignata e ai mestoli. Dormivamo dove capitava, nei campi vicino alle siepi.
Un bel giovanotto maturo aveva preso in simpatia mio marito, forse perché erano della stessa misura. Gli ha regalato gli scarponi e mezzo sacco di riso. Era una spia inglese che faceva i segnali, ci ha detto di allontanarci perché lui con i suoi segnali sapeva di procurare guai. La strada era sempre battuta da qualcuno che scappava, o erano tedeschi o erano gli altri, i scapàa töcc. Anche qualcuno dei nostri iniziava a non farcela più, un po’ la debolezza, un po’ lo sconforto, avevano la febbre ’sti figlioli e hanno deciso di fermarsi. Io invece insistevo sempre, andiamo, andiamo, volevo tornare da mia figlia.
Si sono fermati ad aspettare il fronte, ma non sapevi come ti prendevano, non sapevamo niente, allora io e mio marito siamo ripartiti. Lui sprecava un po’ il tedesco, è riuscito ad avere i biglietti del treno, così ci siamo portati fuori una cinquantina di chilometri, il fronte per noi non c’era più. Prima, la sera c’era silenzio e la mattina dovevi sempre partire, adesso no. Siamo passati davanti a una bella villa, si vedeva la gente su al primo piano, c’era una discesa e sulla discesa un bel caretì di montagna, sono diversi dai nostri, sono entrata e l’ho preso, mio marito mi diceva, Olga, no, vieni qui, ma io ho caricato su la nostra roba e via. Trenta chilometri si facevano volentieri perché allora non avevamo nemmeno vent’anni.
Siamo arrivati in un paesetto di montagna e abbiamo dormito in una rimessa che usavano per metterci il letame e gli aghi di pino. La mattina fuori dalla rimessa ci aspettavano tre tedeschi, che paura ci siamo presi, ci hanno chiesto se potevano mettere la loro roba sul carrettino, strada facendo tiravano un po’ anche loro, buoi gli italiani e buoi anche i tedeschi.
Ci siamo fermati a mangiare ma non parlavamo insieme. Io avevo il riso degli inglesi, loro facevano cuocere il granoturco. Poi siamo andati tutti e cinque in stazione e, con i pochi viveri che riuscivamo a trasportare, io e mio marito siamo partiti per Innsbruck, dove smistavano le persone e le aiutavano a raggiungere ognuno il suo Paese. Ci hanno dato da mangiare, lì avevano addirittura i recipienti di carta fatti apposta.
Vedesse la città, Oh Signur!, era tutta spianata, non c’era più nessun posto dove andare a ricoverarsi, e pioveva, pioveva… no, no, guardi, io non ce la facevo più, ho provato a dormire sotto la pioggia battente, tanto era il sonno che avevamo che ci sdraiavamo vicino alle macerie e là si dormiva, era sempre questione di poche ore, perché era più il tempo che si stava svegli, a doverla dire tutta.
Si è fatto tardi? Ha finito il giro oggi o deve andare da qualcun altro? Rimanga ancora un po’, dèm.
Poi finalmente abbiamo attraversato il confine, ma ce n’era ancora tanta di strada da fare, il treno era come quelle tradotte che ti portano lentamente ma ti portano, almeno non dovevo camminare.
L’ultima parte del viaggio l’abbiamo fatta su un camion a rimorchio e poi, oramai dalle nostre parti, ancora in treno. Il camion sapeva di bosco, trasportava il legname. Abbiamo viaggiato per parecchie ore, sempre sotto le intemperie. Con la pioggia, l’odore del bosco si sentiva di più.
Sul treno qualcuno ha detto, Treviglio!, Treviglio!, ma oramai era troppo tardi, si era già passati oltre. Dopo Treviglio c’è per forza Cassano, allora ci siamo messi a gridare tutti stavolta. Siamo arrivati a Fara di notte, col coprifuoco, perché qui c’erano i tedeschi che erano ancora i padroni, allora abbiamo… Ce li ha due minuti ancora? La stase ché an mumentì amò, facciamo un altro caffè, io lo allungo col vino, per via del mio sangue, l’anemia, si ricorda?
Quando sono partita avevo un baule con dentro le stoffe e le gallette, sa, quel pane che dura, ma la valigia non è mai arrivata là dove eravamo a lavorare. Dal giornaletto della Semperit mio marito ha saputo che il deposito di questi bagagli che avevano bloccato era a Innsbruck. Difatti il mio baule lo abbiamo trovato là, me l’ero portato appresso ma adesso non ne potevo più, mi dava fastidio, allora quando siamo arrivati a Cassano che c’era il coprifuoco siamo andati a bussare a una porta lì vicino: abbiamo dato tutto alla signora che è venuta ad aprirci, anche la farina.
Siamo arrivati a casa alle tre di notte. Ho chiamato la mia mamma dal cortile dove siamo nati per quattro generazioni, è stata la zia a venire per prima alla finestra.
Luigina dormiva ma ha aperto gli occhi, era la prima volta che sentiva la voce di suo padre. Avevamo quarant’anni in tre.
L’allora direttore generale della produttrice austriaca di pneumatici Semperit, Franz Josef Messner, fu arrestato nel marzo del 1944 dalla Gestapo per la sua appartenenza a una cellula della resistenza viennese. Fu assassinato il 23 aprile 1945 nel campo di concentramento di Mauthausen. Olga Pelamatti non l’ha mai saputo.