Daniela Barcella
Le teorie psicoanalitiche sono spesso applicate alla lettura delle opere d’arte grazie alle loro potenzialità investigative del sostrato delle forme che costituisce le immagini. Le letture e le interpretazioni in tal senso devono tener conto di un presupposto fondamentale: fare appello alle teorie di Sigmund Freud in questo contesto significa mettere in gioco un “paradigma critico” e non un “paradigma clinico”. In altri termini, le teorie freudiane applicate all’arte ci interessano perché aprono, oltre al problema del soggetto, il problema della conoscenza e del sapere, in una prospettiva di strappo dei paradigmi epistemici costituiti; mentre non ci devono interessare (errore diffuso) per spiegare patograficamente le opere sulla base della biografia degli artisti e del loro fantasma inconscio. Ecco che termini come sintomo, deformazione, rimozione, retroazione, risignificazione entrano in gioco in alcune delle possibili letture delle opere d’arte, necessariamente svestiti da applicazioni e implicazioni di tipo clinico. Tra questi “sintomo” è quello che più apre prospettive interpretative interessanti, soprattutto laddove la trama significante non è riconducibile totalmente a un significato perché una componente intraducibile resiste a ogni decifrazione simbolico-semantica. Esso va inteso nel suo significato etimologico di “ciò che cade o cade con” (symptoma, “avvenimento fortuito” da syn- “insieme” e -piptein “cadere”) ovvero come “l’incontro fortuito, la coincidenza, l’evento che sopraggiunge per turbare l’ordine delle cose – sotto l’imprevedibile ma sovrana legge della tyche”.1 Il sintomo è, quindi, lo strappo che sconvolge l’ordine familiare, la tyche che scompagina l’automaton, il punctum che “mi punge” come direbbe Roland Barthes o lo stoss, l’urto, come direbbe Martin Heidegger, che “apre un mondo”.
Si presenta così come sovrano nonché come ciò che non ci parla secondo un codice iconografico convenzionale: esso è “grido o mutismo nell’immagine supposta parlante” afferma il filosofo e storico dell’arte francese Georges Didi-Huberman richiamandosi alla definizione di sintomo data dallo psicoanalista Jacques Lacan nel Seminario XI come “mutismo nel soggetto che è supposto parlare”.2
Molte immagini artistiche sono portatrici di sintomi ovvero di crisi: noi siamo davanti ad esse come di fronte a ciò che si sottrae. Non hanno un carattere strettamente razionale, anche se questo non vuol dire che tutto ci sfugga e cada nell’assenza assoluta di logica e struttura: le immagini presentano una loro struttura che però è sempre da pensare come aperta3, strappata; non negano la logica ma ci giocano aprendola in una dialettica senza fine.
La sfida cui siamo spronati è quindi quella di superare qualsiasi riduzionistico schematismo oppositivo e, al contrario, di pensare insieme struttura e apertura, logica e strappo, senso e non-senso, sintomo e simbolo. Tale modello interpretativo, che potremmo definire visuale-sintomale, non intende decifrare i simboli su cui la storia dell’arte si è a lungo basata e ridurli a unità di senso, quanto mettere in dialogo simboli e sintomi nella consapevolezza del fatto che “[…] l’apertura del sintomo ci dà accesso a qualcosa come un impensabile che sotto i nostri occhi attraversa le immagini”.4 Questo si può produrre anche in immagini all’apparenza semplici nella loro struttura significante dove il nostro sguardo può essere impressionato, colpito, ferito da un elemento che appartiene alla componente massiva, al visuale (più che al visibile) inteso come proliferazione di sensi possibili, condensazione, spostamento, trasfigurazione di senso. Sintomo, appunto.
Il sintomo, in effetti, è per la psicoanalisi un processo o lavoro che congiunge nodi di senso e marche di non-senso, creando incertezza e dubbio in ciò che pensiamo di vedere. È, riprendendo ancora una volta il linguaggio lacaniano, un nodo di capitone che fa tenere il tessuto per la ragione stessa che lo buca e lo perfora nella sua doppia vocazione strutturale e alla caduta.5 Così sono elementi sintomatici della rappresentazione, secondo Didi-Huberman, il muro bianco dell’affresco raffigurante l’Annunciazione e realizzato da Beato Angelico a metà del XIV secolo per una delle celle del convento di San Marco a Firenze o le macchie di colore gettate a distanza, dallo stesso artista e nello stesso luogo, con un procedimento simile a quello dell’arte informale.
Ecco, così, come la nozione psicoanalitica di sintomo, in tutta la sua potenza critica, ci conduce a un cambiamento radicale nel nostro modo di guardare le immagini e come i modelli tradizionali di visibile e leggibile siano ormai superati e sostituiti dal paradigma del visuale-sintomale, dello strappo, dell’apertura, della figurabilità intesa come modificazione delle figure. Lo schematismo è sostituito dalla magmaticità di un nuovo approccio che ci consente di cogliere appieno la potenza delle immagini, il loro potere di urto e di rivelazione in capitonaggi di senso sempre necessariamente provvisori.
Da questo punto di vista, gli storici dell’arte hanno voluto incentrasi sui dettagli delle forme eleggendoli rivelatori dei significati più profondi. I dettagli, tuttavia, non devono essere considerati unità indissolubili di senso dalla cui somma emerge il significato dell’opera, bensì parti sempre parziali di un tutto, di una catena che, come ci insegna Lacan, essendo l’inconscio strutturato come un linguaggio, ha una struttura metonimica caratterizzata da un costante slittamento significante, ossia da una sottrazione continua di senso.
Commenta a tal proposito Didi-Huberman:
Tale sarebbe in questo senso l’aporia del dettaglio, l’aporia di ogni conoscenza ravvicinata della pittura: nel momento stesso in cui mira a una forma più precisa, lo sguardo vicino non arriva che a slegare la materia e la forma e, così facendo, malgrado lui, si condanna a una vera tirannia della materia. Tirannia che va a rovinare così l’ideale descrittivo legato alla nozione di dettaglio: lo sguardo ravvicinato non produce che annebbiamento, ostacolo, “spazio contaminato”.6
In questo svuotamento infinito, la condensazione metaforica, il capitonaggio, può portare a un’improvvisa emergenza di significazione, sempre e solo però in modo provvisorio. Didi-Huberman si rifa implicitamente proprio all’impossibilità lacaniana di catturare il senso una volta per tutte e quindi di poter dire “il tutto” di un’opera. Se il senso non potrà mai essere catturato completamente, il compito dello storico dell’arte davanti a un’immagine (come dell’analista nella cura) non è di svelare un senso nascosto, ma di indicare che lì c’è un gisement de sens, un giacimento di senso, un punto di densità, in una parola un sintomo. Il sintomo è clinicamente una formazione di senso, non l’irrazionale. La potenza dell’immagine secondo Didi-Huberman non risiede dunque nella mimesis della realtà esterna o nella traduzione di un’idea in figura, quanto in una complessa e costante dialettica tra simboli e sintomi, tra metafore e metamorfosi o ancora, come disse lo storico dell’arte Aby Warburg variando i termini nicciani di apollineo e dionisiaco, tra “astra” e “monstra”. Pertanto, quello che si ritrova nell’immagine che sappia veramente colpirci è un continuo movimento anadiomenico che procede dal basso verso l’alto e poi di nuovo, infinitamente, dall’alto verso il basso, proprio come la Venere Anadiomene prende forma dalla schiuma informe del mare senza però smettere di portare su di sé la tensione verso la re-immersione, lo sprofondamento nella schiuma. La pittura non è solo mimesis, definizione e riproduzione: è costante emersione e immersione, esigenza della forma ed esigenza della schiuma. Il sintomo dell’immagine è appunto un momento di improvviso sprofondamento verso una verità extrasignificante all’interno della struttura semantica dell’immagine.
È chiaro che lo stesso concetto di figura si trova qui profondamente modificato. Cosa è una figura? Una figura per Didi-Huberman non è ciò che riproduce e che quindi è isolabile, visibile e descrivibile in tutti i suoi dettagli, è piuttosto uno sviamento visivo che rimanda a qualcosa che in quel momento non è presente. Ne consegue che ogni vera opera è un’opera di perdita che si crea su un vuoto a cui l’atto del vedere ci rinvia costantemente. Proprio quando l’opera si presenta come travagliata dalla perdita e ci fa sentire che qualcosa ci sfugge, la modalità del visibile si fa ineluttabile. Noi percepiamo che l’opera davanti a noi è sorretta al suo interno da un vuoto, da un processo di scomparsa che ci fa entrare e uscire dall’opera scindendo ciò che vediamo da ciò che ci riguarda. Così ogni superficie, anche la più semplice, se sorretta dal travaglio della perdita si fa “potenza visiva” che ci trascina in un costante movimento anadiomenico dalla superficie al fondo e viceversa.
L’idea di bellezza formale, dunque, non va pensata in termini di sostanza e di eternità per mostrare che anche le forme soffrono di sintomi, cioè di “ascensioni verso la caduta”7, come li definisce il pensatore francese Georges Bataille con una bella espressione ossimorica che rende conto del movimento costante di sali e scendi della verità sintomale. Variando i termini, queste ascensioni nella caduta sono regressioni a una conoscenza più alta.8 La forma soffre di sintomi deformanti, di accidenti particolari e singolari, per questo essa “mai può ‘invecchiare onestamente’ sotto il cielo dell’universalità”.9 Il velo del tempo presente si strappa e una risorgenza, fino a quel momento inconscia, fa irruzione. Per questo un’immagine, afferma Didi-Huberman seguendo la grande lezione warburghiana, non appartiene a questa o quella durata, ma sempre a durate diverse che in essa si incontrano, entrano in collisione, si intrecciano. L’immagine è temporalmente “sovradeterminata” – definizione che Freud ha adottato per i sintomi – poiché costantemente “anacronizzata dalle sopravvivenze”. Nel senso che nell’immagine il passato non cessa di riconfigurarsi e di intrecciarsi con il presente e con le proiezioni future, rendendo così la storia dell’immagine complessa, aperta, disorientata. La sopravvivenza anacronizza l’immagine a diversi livelli – sempre intrecciati e mai gerarchici – temporali: il passato ritorna come ritorno della somiglianza che nel presente si riconfigura proiettandosi verso un futuro che, a sua volta, ne conserverà le tracce. Il presente, pertanto, è sempre un presente reminiscente e la sopravvivenza attraversa tutte le temporalità unificandole in un nodo fluido e instabile. Questo accade nelle formule di pathos, formazioni porta-memoria all’opera nelle immagini, ambigue, dinamiche, metamorfiche tanto da invertire costantemente le loro polarità e assumere significati opposti nella totale insensibilità alla contraddizione. È questo il loro aspetto paradossale che le accomuna alle formazioni dell’inconscio. Di conseguenza, le formule di pathos non possono essere imbrigliate in schemi riassuntivi che le cataloghino, perché, stante tutta la forza e plasticità dinamica, ogni classificazione risulterebbe riduttiva e banalizzante, proprio come la formula di pathos per eccellenza, la figura di Ninfa: eroina danzante e impersonale “giacché racchiude in sé un gran numero di incarnazioni, di personaggi possibili”.10 È portatrice per eccellenza di doppie polarità: celeste e terrestre, aerea e incarnata, mossa da “cause esterne” (il vento, la brezza) e da moti interni (essenzialmente, il desiderio). In effetti, il vento agita i capelli e il panneggio leggero di Ninfa (componente aerea) che, da un lato crea le sue volute, dall’altro aderisce alla massa corporea mostrandone l’intimità (componente carnale). Ninfa è la cristallizzazione corporea per eccellenza della dialettica dei mostri dove la calma bellezza apollinea vive in tensione con il fondo dionisiaco o meglio, come ama definirlo Warburg, “demoniaco”, perché nel suo movimento essa è figura affascinante e soave che porta l’impronta del Nachleben, la sopravvivenza erotica e violenta, delle antiche menadi danzanti. Detto altrimenti, in Ninfa, come in tutte le formule patiche, sopravvive l’“engramma”11 di un ricordo inconscio di lunga durata, una formazione porta-memoria che è ambivalente e ambigua, proprio come sul piano clinico ambiguo e ambivalente è il sintomo che, afferma Didi-Huberman richiamandosi esplicitamente a Lacan, “coniuga effetti di maschera ed effetti di verità, forze di trasformazione e forze di ripetizione, spostamenti incessanti e impronte indistruttibili”.12 E novella Ninfa è anche la famosa Gradiva, una sorta di statua errante che si anima inquieta, colei che con il suo incedere (il suo nome significa appunto “colei che risplende avanzando”) e il suo panneggio affascina fino al delirio il protagonista del racconto di Johannes Vilhelm Jensen a cui Freud dedica il suo saggio su delirio, sogno, allucinazione; per il padre della psicoanalisi essa è una figura femminile fantasmatica, incarnazione di un rimosso psichico del protagonista archeologo che deve scavare questa volta nel suo passato per ob-onirizzare (completare il lavoro del sogno per metabolizzare psichicamente o somaticamente i resti notturni) la figura e individuare nella passione delirante per quell’immagine la passione rimossa per una donna reale. La vista dell’immagine di quella figura ha riattivato un lavoro psichico antropologicamente radicato e, forse proprio per la sua valenza sintomatica, lo stesso Freud, a seguito di una visita ai Musei Vaticani, volle una riproduzione del bassorilievo da conservare nel suo studio.
Alla luce di tutto ciò risulta chiara la definizione warburghiana delle immagini come “fenomeni antropologici totali”, ovvero espressioni totali di una civiltà e di ciò che in essa è antropologicamente radicato, di una forza vitale di lunga durata che in momenti sintomatici ricompare. Elementi antropologici, che sopravvivono nella memoria socio-culturale, ricompaiono – trasfigurati, spostati, deformati – negli spazi di caduta dell’immagine, laddove l’immagine lascia posto a quanto sfugge all’ordine raffigurativo per fare emergere un significato rimosso. Come i sintomi, le immagini non hanno un carattere strettamente razionale, perché la loro struttura è aperta, strappata, oltraggiata, rovinata. Come i sintomi, non rigettano la logica, ma giocano con essa mostrando la forza del negativo che fa risorgere ciò che era sprofondato, la materia informis nella forma, il visuale nel visibile.
1 Georges Didi-Huberman, Devant l’image. Question posée aux fins d’une histoire de l’art, Paris, Les Éditions de Minuit, 1990, p. 62. Traduzione dell’autrice.
2 Ivi, p. 248. Traduzione dell’autrice.
3 Didi-Huberman precisa che il termine “aperta” non va qui inteso come l’ha utilizzato Umberto Eco nel suo testo Opera aperta. Per Eco dire “apertura” significa esaltare le potenzialità di comunicazione e di interpretazione dell’opera (“[c]osì nella dialettica tra opera e apertura, la persistenza dell’opera è garanzia delle possibilità comunicative e insieme delle possibilità di fruizione estetica.” Umberto Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Milano, Bombiani, 1995, p. 184); mentre per Didi-Huberman significa parlare di struttura strappata e rovinata nel punto più essenziale del suo sviluppo (cfr. Devant l’image, op. cit., p. 174). L’opera di Eco rimane ad ogni modo importante per l’interpretazione delle poetiche artistiche contemporanee, lette alla luce di un concetto di forma più articolato.
4 G. Didi-Huberman, Devant l’image, op. cit., pp. 212 e 218.
5 Per Lacan il sintomo è quindi strutturato come una metafora perché si produce quando un significante prende il posto di un significato rimosso. Pertanto, nel sintomo, clinicamente parlando, ciò che parla è la verità rimossa, il desiderio inconscio del soggetto. Come detto, però, nel nostro caso il termine sintomo va inteso nel suo paradigma critico e non clinico.
6 G. Didi-Huberman, Devant l’image, op. cit., pp. 280-281.
7 Georges Didi-Huberman, La ressemblance informe ou le Gai savoir visuel selon Georges Bataille, Paris, Macula, 1995, p. 191. Traduzione dell’autrice.
8 Cfr. Giorgio Agamben, “Aby Warburg e la scienza senza nome”, in La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza, Neri Pozza, 2005.
9 G. Didi-Huberman, La ressemblance informe ou le Gai savoir visuel selon Georges Bataille, op. cit., p. 191. Traduzione dell’autrice.
10 Georges Didi-Huberman, L’immagine insepolta. Aby Warburg, la memoria dei fantasmi e la storia dell’arte, trad. it. di Alessandro Serra, Torino, Bollati Boringhieri, 2006, p. 238.
11 Il termine “engramma” è utilizzato anche in ambito fisiologico per indicare un cambiamento del sistema nervoso a seguito di un processo di memorizzazione. [N.d.T.]
12 G. Didi-Huberman, L’immagine insepolta, op. cit., p. 282.