Se il grande desiderio dell’uomo è sempre stato quello di esplorare nuovi mondi, mosso dal suo immenso desiderio di conoscenza, negli ultimi anni sembra che il mondo reale non sia più così sufficientemente soddisfacente. Tra le ambizioni dell’uomo contemporaneo c’è anche quella di riuscire a spingersi ben oltre i confini del reale, attuando un percorso – un tempo ritenuto irrealizzabile – che deve tutto al grande impulso offerto dallo sviluppo di nuove tecnologie sempre più innovative e capaci di tradurre in realtà ciò che un tempo era solo materia da sogno.
Sembra lontano, oramai, il 1982, quando debuttò nelle sale statunitensi Tron di Steven Lisberger, una pellicola destinata a diventare un cult non solo per tutti gli amanti del filone sci-fi e di quelli che oggi identifichiamo come nerd, ma anche per aver gettato le basi per ciò che oggi rappresenta la nuova frontiera dell’intrattenimento da salotto: la Realtà Virtuale (VR). Ed è interessante che la genesi del film di Lisberger affondi le radici nell’entusiastico interesse del regista nei confronti di una tecnologia nascente come quella del videogioco – e nel suo caso specifico, di Pong (1972) di Atari – che proprio in quegli anni stava già vivendo una primissima epoca d’oro, anche se di lì a poco era già pronta ad affrontare una significativa crisi del mercato, dettata principalmente da una sua massiccia saturazione, che colpì il settore esattamente nella prima metà degli anni Ottanta. Tron racconta per la prima volta sul grande schermo la storia di un uomo, Kevin Flynn (Jeff Bridges), che diventa “codice”, si smaterializza diventando pixel, assumendo egli stesso la forma di un personaggio da videogioco, aprendo per la prima volta la porta ad un mondo, quello virtuale, che nell’epoca in cui la pellicola uscì nelle sale cinematografiche, rappresentava ancora un mondo nuovo, accidentato, completamente da esplorare.
Tron rappresenta dunque il primo tassello, la prima avvisaglia, sul fatto che di lì a poco le cose sarebbero cambiate, ponendo le fondamenta di tutto ciò che il medium videoludico avrebbe costruito nelle tre decadi successive fino ad arrivare ai giorni nostri. Eppure, ancor prima che la VR diventasse quella tecnologia prorompente che sta attirando l’interesse di molteplici settori (e non solo di quello videoludico), è importante capire cosa abbia incentivato e spinto il desiderio dei videogiocatori in primis, e degli sviluppatori di conseguenza, di varcare la soglia della quarta parete e diventare parte integrante di quei mondi alternativi che il medium videoludico continua a creare da quando esiste. C’è un aspetto, in particolare, su cui vale la pena riflettere ed è quella necessità che il giocatore – soprattutto da quando il videogioco si è trasformato in un prodotto sempre più complesso – ha inseguito con grande passione, ossia il concetto di immersività.
Se da Pong e Super Mario Bros. (1985) le cose sono decisamente cambiate in termini di profondità narrativa e di qualità, questo è in larga parte dipeso dal fatto che i videogiochi odierni hanno una filiera produttiva molto simile a quella dei grandi blockbuster cinematografici, dove ogni aspetto – dalla grafica alla motion capture, passando per i suoi script – è caratterizzato da una grande profondità, senza tuttavia dimenticare il fatto che le tecnologie dedicate allo sviluppo dei videogiochi hanno compiuto importanti passi avanti rispetto a quando Nolan Bushnell ha scritto la prima riga di codice di Pong. Se fino a qualche anno fa l’esigenza del videogiocatore era quella di avere una storia coinvolgente, caratterizzata da personaggi in cui identificarsi e mondi incredibilmente realistici in cui immergersi, ad un tratto il suo più grande bisogno è diventato quello di sentirsi pienamente parte di quei mondi sintetici che occupano le sue fantasie, diventare “attore”, assumere un ruolo attivo e partecipante in quelle realtà che, fino a poco tempo prima, erano visibili solo dietro lo schermo di un computer e sulla TV del salotto.
È esattamente sul rapporto tra schermo e corpo che il teorico Lev Manovich, nel suo libro Il linguaggio dei nuovi media (2002), si interroga sul tipo di relazione che il corpo dello spettatore instaura con l’immagine computazionale. Nonostante l’opera di Manovich sia stata pubblicata in un’epoca in cui tecnologie VR come Oculus Rift, HTC Vive e PlayStation VR (oggi le principali “attrici” del mercato dell’intrattenimento virtual) non erano state ancora concepite – ma basandosi piuttosto su primissime sperimentazioni condotte da Ivan Sutherland negli anni Sessanta con The Sword of Damocles – è da subito chiaro quale sarebbe stata la grande possibilità, fino ad allora inedita, per l’esperienza videoludica di un utente: muoversi, interagire, osservare, diventare egli stesso parte di quel mondo, smaterializzandosi esattamente come Kevin Flynn di Tron e ricomponendosi in formato pixel all’interno di una realtà virtuale. Il corpo del giocatore, esattamente come intuito da Manovich, non è più incatenato, ma può muoversi liberamente in uno spazio, può finalmente avverare quel desiderio di sentirsi parte integrante di quel mondo. Se, tuttavia, Manovich riconosce nelle tecnologie VR dell’epoca il grande limite di incatenare fisicamente il giocatore in quanto i primi prototipi erano giganteschi tubi flessibili che collegavano il visore a dei binari collocati sul soffitto che, a detta del sociologo e saggista statunitense, Howard Rheingold, rendevano “l’utente prigioniero della macchina”1, i dispositivi attualmente in commercio riescono ad aggirare questo problema, offrendo un’esperienza di gioco di gran lunga più flessibile e meno imbrigliata rispetto a quanto previsto inizialmente.
Il nuovo filone di headset VR è approdato sul mercato agli inizi del 2016, diventando ben presto il nuovo sinonimo del gaming moderno, l’unica tecnologia ad oggi che permette al giocatore di avverare quel sogno a lungo assopito: diventare parte integrante del mondo di gioco, poter realizzare quell’ambito desiderio di diventare immateriale, esattamente come le esperienze evanescenti vissute fino a quel momento. Se fino ad oggi la partecipazione più immediata del giocatore all’azione mostrata sullo schermo era offerta quasi esclusivamente dalla scelta di un punto di vista in prima persona – una tecnica che offre senza dubbio un coinvolgimento maggiore rispetto ad una visuale in terza persona – grazie alla realtà virtuale, l’utente non è più limitato dalla presenza di un limen rappresentato dallo schermo del PC e della TV, ma ciò che vede sulle lenti del suo dispositivo è esattamente ciò che i suoi occhi vedrebbero nella realtà. È inoltre indicativo il fatto che, ad oggi, le esperienze attualmente in commercio e quelle predilette dagli studi di sviluppo siano essenzialmente giochi di simulazione (racing, esplorazione spaziale, ecc.) e titoli horror. La scelta di questi generi videoludici così specifici sembra essenzialmente dettata dal fatto che le esperienze qui in offerta permettono al giocatore di interagire con l’ambiente virtuale, per quanto simulato, ma soprattutto di fare in modo che siano i propri sensi a prendere il sopravvento, abbandonando il proprio corpo carnale in favore di una sua trasmutazione virtuale.
Emblematico è il caso di Batman: Arkham VR – titolo sviluppato dallo studio britannico Rocksteady – in cui il giocatore veste i panni del Cavaliere Oscuro, restituendo per la prima volta a quest’ultimo quel senso di onnipotenza e invincibilità trasmessi dal personaggio della DC. Esattamente come quando si è bambini e si “gioca ad essere” un supereroe, il titolo per PlayStation VR (il dispositivo per la realtà virtuale che funziona esclusivamente con l’ultima console di Sony, PlayStation 4) permette per la prima volta ai giocatori di indossare (seppur virtualmente) gli abiti del proprio eroe preferito, prendere parte in modo diretto all’azione del gioco. Nonostante l’interazione sia ancora limitata dalla presenza del controller (dunque il giocatore non può “realmente” toccare o interagire con eventuali oggetti), è sicuramente significativo il fatto che gli occhi del personaggio (e di conseguenza, il suo punto di vista) coincidano esattamente con quelli dell’utente. Altro aspetto molto interessante di Batman: Arkham VR è quell’illusoria percezione che il corpo del giocatore coincida esattamente con quello del Cavaliere Oscuro: se infatti l’utente prova ad abbassare lo sguardo verso il basso nel tentativo di guardarsi i piedi, mentre indossa il visore, l’immagine che gli viene restituita è esattamente quella dell’uniforme indossata da Batman. Guardandosi intorno, pur essendo pienamente consapevole di essere comodamente seduto sul divano del proprio salotto, il giocatore ha la percezione di trovarsi immerso nella Bat-Caverna o nella Wayne Manor, restituendo un senso di appartenenza a quel mondo assolutamente ineguagliabile.
Di tutt’altro respiro, seppur allo stesso modo coinvolgente, è l’esperienza offerta da un titolo per PlayStation VR di recente pubblicazione, Resident Evil 7: Biohazard. Il gioco è l’ultima iterazione di una longeva serie videoludica survival/horror sviluppata dallo studio nipponico Capcom, ma è anche la prima ad essere supportata dalla nuova tecnologia VR. Esattamente come accade in Batman: Arkham VR, seppur con atmosfere di gran lunga più inquietanti, il giocatore veste i panni del protagonista, un giovane uomo di nome Ethan, il cui scopo è riuscire a sfuggire da una lugubre casa infestata e portare in salvo sua moglie. Il mood suggerito da Resident Evil 7: Biohazard verte inizialmente sul senso di angoscia e di impotenza a cui il giocatore, indossando il suo dispositivo VR, è costretto a soccombere. Qui, nonostante il corpo del personaggio venga più volte dilaniato dalle minacce che infestano questo luogo simile ad un antro infernale, è ancora la vista – ma questa volta unita all’udito, grazie all’uso immersivo delle cuffie e all’audio in 3D – ad essere il principale senso attraverso cui prende forma l’esperienza digitale del giocatore. Quest’ultimo è perfettamente immerso in un’atmosfera surreale, può ancora una volta esplorare visivamente lo spazio, vivere sulla sua pelle ciò che vive il protagonista del gioco, sentirsi profondamente parte dell’esperienza di gioco, questa volta con risvolti a dir poco angoscianti.
Fino ad ora abbiamo discusso a proposito della necessità incombente del giocatore di calarsi completamente nell’esperienza di gioco, dopo che la soglia imposta dallo schermo del PC o della TV del salotto non era più in grado di soddisfare quel desiderio di appartenenza al mondo virtuale. Se i casi finora riportati hanno messo in luce il fatto che, seppur libero di osservare, il giocatore è ancora imbrigliato – per citare nuovamente Manovich e Rheingold – al mondo reale, in questo caso dalla presenza del controller che ne vincola i movimenti, il futuro virtuale di tanti aspiranti Kevin Flynn sembra essere decisamente più roseo. Appena lo scorso gennaio, in occasione del CES 2017 di Las Vegas, la HTC – la stessa azienda produttrice del visore VR HTC Vive – ha presentato Vive Trackers, un accessorio atteso per metà del 2017, capace di trasformare un qualsiasi oggetto fisico in un accessorio da usare all’interno di esperienze interattive, a partire dai videogiochi. La grande novità di questi apparecchi risiede nella possibilità di tradurre un qualsiasi oggetto del mondo reale in artefatti virtuali, con cui gli utenti possono interagire all’interno dell’esperienza virtuale. Ma aspetto ancora più interessante, come annunciato dalla stessa compagnia successivamente, il prossimo step sarà esattamente quello di tradurre l’intero corpo del giocatore sotto forma di pixel, in modo da rendere l’esperienza ancora più interattiva.
Quel sogno premonitore avuto da Steven Lisberger in Tron sembra oramai tramutarsi in realtà. Se il giocatore ha inseguito per oltre tre decadi quel desiderio di trasformarsi in un insieme di codici e pixel, sperimentando sulla propria pelle l’affascinante illusione di vivere in un mondo “altro” come quello virtuale offerte dal medium videoludico, ciò che è sembrato fino a poco tempo fa la trama perfetta di un film di fantascienza si sta insinuando nella vita di tutti i giorni, permettendo di vivere esperienze uniche fino ad oggi ritenute impensabili. E non c’è nulla di più magico di quando i sogni diventano realtà, anche se quest’ultima è immateriale quanto un mondo virtuale.
di FABRIZIA MALGIERI
1 Howard Rheingold, La realtà virtuale. I mondi artificiali generati dal computer e il loro potere di trasformare la società, Bologna, Baskerville, 1993 in Lev Manovich, Il linguaggio dei nuovi media, Milano, Edizioni Olivares, 2001, p.148.