Marco Sgrignoli, matematico |
È stata chiamata “la domanda delle domande”: “perché esiste qualcosa, anziché il nulla?”. Per secoli, se non millenni, la questione ha attanagliato filosofi e pensatori, e le diverse risposte fornite nel corso della storia hanno intimamente condizionato il dibattito e le teorie scientifiche.
Sebbene il quesito venga solitamente fatto risalire al filosofo barocco Leibniz1, le opere di epoche precedenti sono solcate da tracce assai vistose di un confronto sul tema. Celebre e influente è il giudizio apodittico espresso dall’eleatico Parmenide ancora in epoca preromana: “L’essere è, e non può non essere; il non-essere non è, e non può essere”.2 L’identità tra esistenza e necessità, e non-esistenza e impossibilità, stroncherebbe la controversia sul nascere: “qualcosa” esiste semplicemente perché l’assenza assoluta di qualcosa, ovvero il non-essere, è per sua natura escluso dal novero delle possibilità. Procedendo in maniera consequenziale e serrata, Parmenide e i suoi discepoli giungono alla negazione della possibilità del movimento, della mutazione, della creazione dal nulla e in ultima analisi dello scorrimento stesso del tempo.
L’arguto groviglio verbale coniato da Parmenide si rivelerà assai insidioso, e diventerà presto il cardine col quale si dovrà confrontare ogni personaggio che, successivamente, vorrà interessarsi di ontologia. I diversi tentativi di attacco a esso rivolti portano nomi illustri e ben disseminati nel tempo: la formulazione da parte di Democrito della teoria atomica, che riconduce la materia a corpuscoli in movimento nel vuoto, ha l’obiettivo dichiarato di fornire un’alternativa alla visione di Parmenide; la dottrina platonica delle idee è in prima istanza un tentativo di conciliare l’impossibilità del venir meno di ciò che è necessario (l’idea) con l’evidenza del cambiamento (ristretto alla realtà materiale). Hegel, il più eminente esponente dell’idealismo tedesco, costruisce la sua filosofia sul pilastro del “divenire”, in aperto contrasto con Parmenide, ma proprio da Parmenide riprende l’idea dell’identità tra razionalità – ovvero possibilità logica – e realtà – ovvero esistenza, vedendo il tempo come palcoscenico per l’immenso numero di forme possibili (e dunque, in accordo con Parmenide, necessarie). Bertrand Russell affronta la questione sempre tangenzialmente, in associazione con altre diatribe filosofiche quali la validità dell’argomento sull’esistenza di Dio o la natura ontologica di quelle entità, postulate dal contemporaneo Alexius Meinong, che “sono possibili, ma non esistono”3: la distinzione sottolineata da Russell tra “essere” ed “esistere” sarà una delle basi della filosofia analitica del secondo Novecento.
Anche il dibattito scientifico, attento alla concretezza ma sempre affascinato dalle idee semplici, ardite e foriere di profonde conseguenze, risente fin dai tempi di Parmenide degli echi premonitori della “grande domanda” che sarà poi resa esplicita da Leibniz. Due in particolare sono le declinazioni del tema che segnano in maniera sostanziale lo sviluppo della matematica e della fisica: l’essenza del vuoto e i meccanismi di una possibile creazione ex nihilo.
Il lento arricchirsi del “nulla” matematico
In ambito matematico, il radicalismo parmenideo trova ampio seguito nel mondo greco: corrisponde a un’idea elegante e pressoché autoesplicativa, che per giunta ben si abbina alla secolare avversione ellenica per l’indeterminato – sia esso “vuoto” o “infinito”. Anche presso chi poco s’intende di scienza, è risaputo che per tutta l’epoca classica la matematica fa a meno del concetto di zero. Meno noto è che nell’epoca ellenistica che la segue, che vede la scienza greca espandersi dal Mediterraneo occidentale al subcontinente indiano, geografi e astronomi non si fanno grossi problemi a prendere a prestito una pratica idea babilonese: utilizzare un simbolo apposito – una piccola “o” – per indicare una colonna lasciata vuota all’interno di una scrittura in coordinate (ad esempio, 30° 0’ 23’’). Non si tratta ancora del riconoscimento dell’assenza di elementi come di una quantità a sé, ma l’accettazione diffusa di questa innovazione segna una prima fessura nella fortezza parmenidea. Col senno di poi, rappresenta anche un indizio di un tema assai sottile: ben lungi dall’essere un concetto “vuoto” o anche soltanto semplice, l’idea contemporanea di zero si compone di molte differenti accezioni, concettualmente non identificabili fra loro, evolutesi parallelamente e dotate di gradi di accettabilità molto variegati. La “colonna libera” della geografia matematica ellenistica è una prima traccia, limitata alle parti frazionarie in un sistema sessagesimale come quello delle misure angolari, dell’uso “posizionale” dello zero: molti altri usi ancora dovranno essere introdotti, prima di poter considerare acquisito un oggetto paragonabile al “nostro” zero.
Il sistema posizionale di tipo decimale nasce nell’India del V secolo d.C. grazie al matematico e astronomo Aryabatha, che prende spunto da uno schema binario di enumerazione dei piedi metrici della poesia vedica ideato ben sette secoli prima dal linguista Pingala. Forse, sorprendentemente, non viene però ripresa dal linguista l’idea di un simbolo apposito per indicare le posizioni non occupate. Nel VII secolo, tuttavia, la matematica indiana non solo prevede l’utilizzo del simbolo “•” per un simile scopo, ma concepisce la “quantità nulla” associata (sunya, “vuoto”) come un valore numerico a tutti gli effetti, dotata di regole di calcolo specifiche. È il primo segnale di affermazione di una accezione “operatoria” del concetto.
Nella lunga strada dello zero verso l’Europa qualcosa però si perde: nella Baghdad del IX secolo, il grande matematico persiano Muhammad ibn Mūsā al-Khwārizmī, padre fondatore dell’algebra, sfrutta la numerazione indiana e adatta il suo simbolo in “º” (sifr, ancora “vuoto”), ma non ne prevede l’uso come termine di un’uguaglianza, risultato di un calcolo o soluzione di un’equazione. E nel Liber Abaci, con cui nel 1202 Leonardo Pisano detto Fibonacci fa conoscere all’Europa cristiana la matematica araba e la numerazione indiana, si riporta a chiare lettere: “Le nove cifre degli indiani sono queste: 9 8 7 6 5 4 3 2 1. Con queste nove cifre, e con questo simbolo: 0, che in arabo si chiama zephir, si può scrivere qualsiasi numero”.4 Insomma, le cifre corrispondenti a numeri sono nove, zero è altra cosa.
Potrà sembrar strano, ma in Europa i secoli passano, e il Medioevo fa spazio prima al Rinascimento e poi all’era barocca e alla rivoluzione scientifica, senza che la cittadinanza della “quantità nulla” nel regno dei numeri faccia grandi passi avanti. D’altra parte la schiera di entità matematiche che ancora per lungo tempo avrebbero continuato a “bussare” senza risultato alla porte dell’aritmetica era piuttosto folta: basti pensare che, quando a metà del XVI secolo, Gerolamo Cardano incontrò radici quadrate di valori negativi5 nel corso della risoluzione dell’equazione generale di terzo grado, non si scompose più di tanto: le considerò niente più che un comodo artificio algebrico, esattamente come le quantità negative da cui nascevano!
Cartesio, padre fondatore della moderna geometria analitica, comprende che sugli assi del suo piano (che, non permettendo valori negativi, erano semirette) debbono potersi riportare quantità frazionarie anche minori di uno; concepisce però l’“origine degli assi” non come un punto a pieno titolo, corrispondente a coordinate nulle, ma come un’astrazione grafica o un espediente di comodo: da qualche parte si dovrà ben cominciare a disegnarli, questi assi!
La comunità matematica sembra trattare lo zero e i negativi con la stessa opportunistica diffidenza con cui considera gli “infinitesimi”6 di Newton e Leibniz, quantità positive “non nulle, ma minori di qualunque valore razionale positivo”: ne considera lecito l’impiego nei calcoli, soprattutto se i risultati a cui portano si traducono in previsioni concrete e verificate. Trova utile anche interrogarsi sulle loro proprietà algebriche, ma di includerli a pieno titolo tra i numeri non se ne parla.
Se, con molta calma, attorno al XVIII secolo si giunge ad accoglierlo come parte del continuo della linea dei numeri, è soprattutto per l’onnipresenza delle applicazioni della “quantità nulla” e delle quantità “meno che nulla” in campo astronomico (altezza degli astri sull’orizzonte), termometrico e finanziario (è lo stesso Fibonacci ad accettare soluzioni negative alle equazioni, quando queste rappresentino debiti monetari!).
Il vuoto sotto ai numeri
All’inizio del XIX, il concetto di zero è ormai declinabile in quasi tutte le accezioni in cui lo intendiamo oggi: come “segnaposto” nel sistema posizionale e come punto centrale della linea dei numeri, come “quantità nulla”, elemento neutro dell’addizione7 e come valore da associare a una traslazione o rotazione senza alcun effetto. Paradossalmente, però, non esiste nessuna entità precisa da associare all’idea di “vuoto” in matematica, perché non esistono ancora gli insiemi.
È nel 1874 che questo concetto, oggi considerato fondamentale al punto tale da includerlo nei curricoli della scuola primaria, fa la sua comparsa in uno scritto del tedesco Georg Cantor.8 La teoria cantoriana degli insiemi fa riferimento per la prima volta a un raggruppamento privo di elementi, un “contenitore senza contenuto”: l’insieme vuoto (“Ø”). Accanto all’idea di insieme, Cantor introduce quella di corrispondenza biunivoca (o uno-a-uno), che consente di definire in modo esplicito la nozione di numerosità (o cardinalità) di un insieme.9 Ecco dunque che lo zero incontra finalmente un referente semantico chiaro: la numerosità dell’insieme vuoto. Fin dal primissimo articolo, Cantor mostra che la teoria degli insiemi dispone di una potenza esplicativa e dimostrativa senza eguali.10 Nonostante gli scetticismi iniziali, il nuovo quadro si impone presto come pietra d’angolo di un’opera di sistematizzazione e rigorizzazione della matematica intera, a partire dall’aritmetica.
È in questo contesto che la seconda declinazione del nostro quesito iniziale – quale sia il meccanismo che consente la creazione ex nihilo degli enti matematici – trova una risposta efficace. Gli insiemi possono infatti avere come membri altri insiemi, e ogni collezione finita di insiemi rappresenta a sua volta un insieme. In particolare, è un insieme il raggruppamento formato dal solo insieme vuoto (“{Ø}”); poiché tuttavia questo insieme possiede elementi, esso non coincide con l’insieme vuoto. Se dunque “Ø” rappresenta il numero zero, “{Ø}” è l’insieme convenzionalmente associato all’uno, e così “{{Ø}}” al due, “{{{Ø}}}” al tre, ecc. Dal nulla dell’insieme vuoto è possibile dar vita alla totalità dei numeri naturali!11
È proprio all’apice del successo dell’insiemistica, e della corrente logicista che la elevava a principio primo dell’intera costruzione matematica, che il logico Bertrand Russell individua una falla incorreggibile nel testo sacro della scuola, Grundgesetze der Arithmetik di Gottlob Frege.12 È l’inizio della “crisi dei fondamenti”, che spezzerà le ali al sogno primo-novecentesco di una matematica completamente rigorosa ed autosufficiente e aprirà le danze alle molte rivoluzioni che caratterizzeranno la disciplina nel XX secolo. Ma non spodesterà mai lo zero dal trono del regno dei numeri, che tanto faticosamente ha conquistato. “Nessuno riuscirà a cacciarci dal Paradiso che Cantor ha creato per noi.”13
Le molte vite dell’etere fisico
Negli stessi anni anche il mondo della fisica si trova in subbuglio, proprio a causa di un’annosa questione che concerne il vuoto o, per meglio dire, il suo rivale più longevo: l’etere. Come e forse più ancora dello zero, questo ente intangibile è stato caratterizzato, lungo tutta la sua storia millenaria, da una natura sfuggente e mutevole. Concepito nell’aristotelismo come “essenza celeste” che conferisce agli astri proprietà radicalmente distinte da quelle degli enti terreni, per tutta l’epoca medioevale e rinascimentale esso rappresenta una sostanza eterna e immutabile, imponderabile e trasparente. È in virtù della sua perfezione che i corpi celesti compiono i moti circolari e immutabili che contraddistinguono il sistema aristotelico-tolemaico, strutturato attorno alla cesura tra la fisica dei corpi ordinari (condannati a prediligere moti rettilinei e provvisori) e quella di stelle e pianeti.
L’avvento della nuova fisica di Galileo e Newton non segna il tramonto bensì l’evoluzione di questa idea quantomai versatile. Le due fisiche, terrestre e celeste, sono ormai unificate sotto l’autorità delle leggi della dinamica e del principio di gravitazione universale: la sostanza può dunque abbandonare alcuni dei suoi attributi classici e, in virtù della sua insondabilità, acquisire nuove funzioni. Ecco allora comparire, a partire dal XVII secolo, di Boyle, Huygens e Newton, l’“etere luminifero”: un mezzo al solito invisibile e privo di massa, responsabile della trasmissione della luce oltre che di riempire l’intero spazio affinché non possano sorgere eventuali dubbi sulla non-esistenza materiale del vuoto.
Nei due secoli successivi, complice il grandissimo successo teorico e predittivo dell’idrodinamica, il panorama della fisica si costella di sostanze immateriali (ma del tutto rispondenti alle equazioni della meccanica dei fluidi), introdotte ad hoc per rispondere alle necessità dei più svariati campi di studio. Sono introdotti: il calorico, scambiato tra corpi in corrispondenza ai cambiamenti di temperatura o altre trasformazioni termodinamiche; il flogisto, associato alla combustione dei corpi; uno o più fluidi elettrici, un fluido magnetico…
La progressiva comprensione della struttura corpuscolare della materia rende lentamente obsolete gran parte di queste teorie fluidiche. Ancora una volta, però, l’etere sopravvive, e trova nuovo vigore proprio nel massimo traguardo della fisica classica: l’unificazione teorica di elettricità e magnetismo condotta nel 1865 da James Clerk Maxwell14, e confermata nel 1887 da Heinrich Hertz con la produzione e ricezione delle onde radio. Sembra infatti necessario che, per propagarsi nello spazio, le onde elettromagnetiche (classe a cui, ormai è chiaro, appartiene anche la luce) debbano disporre di un mezzo capace di supportarne le oscillazioni. Questa sostanza dovrebbe essere estremamente pervasiva, del tutto trasparente e, affinché il suo comportamento risulti in accordo con le equazioni di Maxwell, anche di natura fluida, priva di massa, perfettamente elastica, ma anche incomprimibile e dotata di una rigidità milioni di volte superiore a quella dell’acciaio. Qualità difficilmente conciliabili, che si accompagnano a una sconcertante refrattarietà all’indagine sperimentale, nonostante i molti e avanzati procedimenti escogitati per rilevarne il comportamento.15
(Non poi così) vuoto…
Sono i nodi interni alla teoria dell’etere elettromagnetico che nel 1892 portano l’olandese Hendrik Lorentz a proporre due dei cardini della futura teoria della relatività: la dipendenza delle lunghezze dalla velocità e il meccanismo, tanto ingegnoso quanto inaudito, della dilatazione dei tempi. A ridosso del 1900, menti del calibro del matematico Henri Poincaré sono alle prese col significato fisico da attribuire a quelli che Lorentz concepiva come meri artifici formali. La crescente tendenza a considerare le formule di Lorentz come una descrizione di fenomeni reali procede di pari passo con una rapida erosione degli attributi posseduti dall’etere maxwelliano. Quando, nel 1905, Albert Einstein pubblica il suo primo articolo sulla relatività ristretta, di fatto una giustificazione delle trasformazioni di Lorentz che non prevede in alcun modo il ricorso all’idea di etere, quest’ultimo è ormai un concetto profondamente depauperato.
La relatività einsteiniana segna dunque la definitiva affermazione anche in ambito fisico di uno spazio vuoto, privo di attributi intrinseci e misteriose e intangibili sostanze che lo pervadano? È sufficiente uno sguardo distratto ai neologismi più in voga nella cosmologia contemporanea per comprendere che così non è. Ogni anno sono decine di migliaia gli articoli16 soggetti a peer-review contenenti le espressioni “materia oscura”, “energia oscura”, “fluttuazioni del vuoto quantistico”, “energia di punto zero”, “costante cosmologica”, “quintessenza”. Si tratta di termini che fanno riferimento a entità immateriali, ubique e sperimentalmente non rilevabili, la cui esistenza viene postulata per render conto di osservazioni altrimenti non giustificabili.
Alcuni di questi enti sono oggi accettati dalla gran parte dei fisici teorici, altri invece restano in un ambito puramente speculativo17: tutti tuttavia costituiscono un tentativo di sciogliere gli enigmi relativi alla transizione dell’universo dalla sua fase iniziale a ciò che osserviamo ora, dallo stato di “vuoto ad altissima energia” antecedente al Big Bang a quello attuale, popolato da materia, galassie e perfino da esseri senzienti. Rieccoci dunque all’antico quesito: è davvero possibile la creazione del tutto dal nulla? Consapevole delle sue limitazioni, il panorama della fisica moderna brulica di ipotesi sul “come”, ma alza le mani di fronte agli atavici dubbi sul “perché”.
Il nostro compito non è penetrare l’essenza delle cose, di cui peraltro non conosciamo il significato, ma sviluppare concetti che ci permettano di parlare in modo fruttuoso dei fenomeni naturali.18
1 Gottfried Wilhelm Leibniz, Principles of Nature and Grace Based on Reason, 1714.
2 Si veda Parmenide, Sulla Natura, I, fr. 2.
3 In Über Annahmen (1902), Meinong sostiene che gli oggetti non esistenti, ma non contraddittori sul piano strettamente logico (ad esempio, il cavallo alato Pegaso), debbano essere dotati di un qualche grado di esistenza minimale, tale da permettere di fare riferimento a essi in maniera non ambigua.
4 Leonardo Pisano, Liber Abaci, cap. 1, 1202.
5 Come il valore i = √-1, oggi noto come “unità immaginaria” e considerato alla base dell’insieme dei numeri complessi (C), che estende i numeri reali (R) rendendo certa l’esistenza di valori che annullano un qualunque polinomio a coefficienti numerici.
6 Questi “spettri di quantità evanescenti”, che per quanto mal definiti consentiranno lo sviluppo del calcolo infinitesimale e con esso della fisica newtoniana, saranno espulsi dalla matematica ufficiale a 1800 inoltrato grazie alla puntualizzazione del concetto di limite, fornita da Cauchy, Bolzano e Weierstrass. Gli sviluppi della logica formale del Novecento consentiranno però una riabilitazione dell’idea sei-settecentesca di infinitesimo, nel contesto della cosiddetta “analisi non standard”.
7 Nonché elemento assorbente della moltiplicazione: indipendentemente dal valore numerico considerato.
8 Georg Cantor, “Ueber eine Eigenschaft des Inbegriffes aller reellen algebraischen Zahlen”, Journal für die Reine und Angewandte Mathematik, n. 77, 1874 (77), pp. 258-262.
9 Due insiemi sono in corrispondenza biunivoca se è possibile, attraverso un metodo qualsiasi, associare a ciascun elemento del primo uno e un solo elemento del secondo, e viceversa. L’introduzione di questa nozione consente di ripartire la totalità degli insiemi in classi, formate da tutti e soli gli insiemi che possono essere messi in corrispondenza biunivoca fra loro. Queste classi sono chiamate “numerosità” o “cardinalità”, e corrispondono di fatto (per insiemi finiti) ai numeri naturali – zero compreso.
10 Il primo testo contiene la dimostrazione che l’insieme dei numeri algebrici (valori che possono rendere nulli almeno un polinomio a coefficienti interi) può essere messo in corrispondenza coi numeri naturali, mentre non è possibile che esista una simile corrispondenza tra i naturali e l’insieme formato da tutti i numeri reali compresi tra 0 e 1. Di lì a poco, Cantor mostra che l’insieme è più numeroso dei numeri naturali, smentendo la diffusissima convinzione che sia impossibile “quantificare” l’infinito con rigore matematico. Cantor procederà con altre nozioni e risultati di importanza capitale: una definizione esplicita di “insieme infinito”, il concetto di “numero transfinito” per indicare le diverse numerosità degli insiemi infiniti, la dimostrazione che, a sua volta, la gerarchia dei transfiniti è infinita.
11 E da questi, attraverso costruzioni descritte principalmente da Dedekind (1888) e Peano (1889), al resto degli insiemi numerici comunemente impiegati dall’aritmetica.
12 Il paradosso o antinomia di Russell è forse la più celebre tra le contraddizioni formali legate all’autoriferimento. Considerato un opportuno insieme A, formato da tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi, esso appartiene o meno a se stesso? Né sì né no sono risposte accettabili: se appartenesse a se stesso, dovrebbe non appartenere a se stesso; se non appartenesse a se stesso, dovrebbe appartenervi. La contraddizione è indissolubile, dunque la teoria insiemistica di Frege (che consente la costruzione di un tale insieme A) è incoerente.
13 David Hilbert, “Über das Unendliche”, Mathematische Annalen, n. 95, dicembre 1926, pp. 161-190.
14 James Clerk Maxwell, “A Dynamical Theory of the Electromagnetic Field”, Philosophical Transactions of the Royal Society of London, n. 155, 1865, pp. 459–512.
15 Si vedano le esperienze di Fizeau (1851), Michaelson-Morley (1887), Troughton-Noble (1903), Rayleigh (1902) e Brace (1904).
16 Google Scholar ne conta 23056 soltanto nel 2019.
17 Non per questo sono tuttavia ritenuti meno significativi dalla comunità scientifica: uno dei tre premi Nobel per la fisica del 2019, Jim Peebles, ha fornito i suoi maggiori contributi nell’ambito dei modelli che prevedono materia oscura ed energia oscura.
18 Niels Bohr in Abraham Pais, Niels Bohr’s Times in Physics, Philosophy, and Polity, Oxford, Oxford-Clarendon Press, 1993, pp. 426-427.