Francesco Giarrusso

Dal visibile all’invisibile: la fotografia e l’avvento del movimento

Una delle prime cose che si fece, quando si riuscì per la prima volta a fissare un’immagine su un supporto fotosensibile, fu quella di puntare l’apparecchio fotografico al cielo. Si narra che Louis Daguerre, incoraggiato dall’astronomo e politico francese François Arago e da altri accademici quali Jean-Baptiste Biot e Alexander von Humboldt, fu il primo a ottenere un’immagine della Luna. Purtroppo, questo unico esemplare non è giunto fino a noi, sebbene non manchino nel XIX secolo fotografie di corpi celesti e fenomeni astrali.

Sin dalle origini la fotografia trovò nell’astronomia un campo privilegiato di applicazione, soprattutto per quanto concernerà l’osservazione e il calcolo astronomico. Del resto, fu lo stesso Arago a presentire e indicare il prezioso apporto che il registro fotografico avrebbe dato in ambito scientifico, contribuendo, ad esempio, alla mappatura dettagliata della Luna e allo studio della luce emanata dai corpi celesti. Tuttavia, fino all’incirca l’inizio degli anni Ottanta del XIX secolo, la fotografia dovette far fronte alle molte difficoltà tecniche relative alla scarsa sensibilità del supporto fotosensibile nella registrazione dei fenomeni osservati. Sebbene tali fotografie astronomiche fossero accolte con entusiasmo dalla comunità scientifica e non solo, esse offrivano, dopotutto, meno informazioni rispetto a quelle che l’osservazione al telescopio restituiva mediante il disegno, al tal punto che Hervé Faye, discepolo di Arago e astronomo all’Osservatorio di Parigi tra i più ferventi sostenitori dell’applicazione della fotografia in campo astronomico, denunciava nel 1859(?) come tali immagini fossero ancora dei semplici ritratti, mettendo in luce la scarsa rilevanza che questi documenti visivi avevano in ambito astronomico. Infatti, all’epoca, i disegni della Luna e del cielo costituivano ancora il principale strumento di analisi e studio nonostante potessero suscitare più di un dubbio in merito alla loro presunta oggettività, dal momento che vi era sempre il sospetto che potessero essere delle interpretazioni parziali scaturite dalla mano di un singolo osservatore. Tuttavia, il disegno rimarrà per molti anni lo strumento di consultazione privilegiato sopperendo alla scarsa sensibilità delle lastre fotografiche, il cui grado di definizione era così deficitario rispetto alla perizia di un osservatore esperto, che si riteneva che la fotografia non potesse aggiungere nulla che non fosse già possibile apprendere con i dispositivi ottici a disposizione in quegli anni.

In realtà, tra il registro macchinico e l’intervento manuale nella realizzazione delle immagini astronomiche non sussisteva un rapporto di mutua esclusività, giacché esistevano diversi casi nel corso degli anni Settanta del XIX secolo che comprovavano la coesistenza e la cooperazione di entrambi i procedimenti nell’ottenimento della rappresentazione della superficie lunare. D’altronde, se l’impiego del collodio offriva un’immagine rigorosa dei crateri del nostro satellite, il ricorso all’ingrandimento delle vedute lunari fece sì che le immagini perdessero la loro iniziale precisione. A questo proposito non posso che menzionare l’impiego degli acquarelli da parte del dottor Weinack per ovviare ai difetti rimediati in seguito all’ingrandimento delle immagini o la tecnica ideata da James Nasmyth e James Carpenter nel loro The Moon Considered as a World, a Planet and a Satellite (1874), in cui le immagini della Luna furono realizzate fotografando, da diversi punti di vista, un modellino del satellite realizzato dagli autori a partire dai disegni di osservazione dello stesso Nasmyth.

Ma la commistione/sovrapposizione tra rappresentazione paesaggistica e registro fotomeccanico, lungi dall’esprimere solo l’ennesima constatazione circa le manchevolezze proprie della fotografia astronomica, viene in realtà a segnare la fine della fase pionieristica dell’astrofotografia e del paradigma ad essa soggiacente. Infatti la realizzazione di una rappresentazione precisa e comprensibile della superficie lunare, anche e soprattutto con l’ausilio del disegno, fece sì che finalmente la fotografia potesse affrancarsi dalla funzione di mero strumento di osservazione il cui soggetto privilegiato fu, tra il 1850 e il 1875, la superficie del satellite terrestre. In altre parole, la fotografia si emancipò dal suo servilismo illustrativo a partire dal momento in cui portò a termine la prima rappresentazione fedele della Luna, potendosi in un certo qual modo dedicare ad altro, ovvero, alla rivelazione di tutto ciò che si celava all’occhio umano. In tal senso, l’avanzamento tecnico e gli interessi scientifici consentirono al dispositivo fotografico di divenire un autentico strumento di scoperta nella misura in cui cominciò a rendere visibile ciò che si nascondeva anche ai più potenti telescopi dell’epoca, così come avvenne, ad esempio, nel 1883 quando Andrew Ainslie Common ottenne le prime immagini della nebulosa di Orione.

Per la precisione, il passaggio del dispositivo fotografico da semplice strumento di riproduzione e osservazione, per giunta a volte poco attendibile, ad apparecchio scientifico avvenne ben prima del 1883 e coincise con il crescente interesse rivolto all’analisi del Sole da parte dell’astronomo amatore Warren De La Rue e dei suoi colleghi inglesi a partire dagli anni Sessanta del XIX secolo, e, successivamente, con l’affermarsi dell’astronomia di posizione volta alla registrazione e misurazione del tempo e dei calcoli attinenti allo studio della meccanica celeste.

Già nel 1849 Faye sosteneva come “l’utilizzo più importante della fotografia negli Osservatori debba permettere di risolvere il problema della determinazione del tempo assoluto”1, ribadendo quella che sarà la prerogativa della scuola astronomica francese fondata sul primato della matematica. In quegli anni l’Osservatorio di Parigi si dedicava prevalentemente alle osservazioni meridiane2 al fine di individuare con precisione le esatte posizioni degli astri nella volta celeste, costituendo, di fatto, il compito fondamentale dell’astronomia matematica. Operazione assai complessa e delicata che Faye pensò di demandare alla fotografia in modo tale da eludere la fallibilità propria dei nostri sensi. Del resto, secondo Faye il dispositivo fotografico avrebbe con grande perizia e precisione sostituito l’osservazione umana, sopprimendo qualunque genere di errore individuale poiché, come continuerà a sostenere caparbiamente nel corso degli anni, si eliminerebbero così “l’ansia, la fatica, l’abbagliamento, la precipitazione, gli errori dei nostri sensi, in una parola l’intervento sempre sospetto del nostro sistema nervoso”.3

Ed è ciò che avverrà di lì a poco con il revolver fotografico di Pierre Jules Janssen con il quale, in occasione del passaggio di Venere dinanzi al Sole del 1874, la fotografia diverrà la “vera retina dello scienziato”4 così come aveva auspicato e preconizzato Faye, suo diretto predecessore.

L’eccezionalità dell’evento, tanto per la rarità del fenomeno quanto per l’intento scientifico implicito alla sua osservazione, necessitava dell’ausilio di uno strumento di estrema precisione. Parte del mondo scientifico, tra tutti e in particolare Janssen, riconobbe questa qualità alla registrazione fotomeccanica. In altre parole, questo evento fu il primo fenomeno astronomico che interpellò, o per lo meno, avrebbe dovuto consacrare, nelle intenzioni dei suoi promulgatori, la fotografia come principale strumento scientifico di osservazione e misurazione in grado di superare le limitazioni fisiologiche della vista umana.

Il giorno 8 dicembre del 1874 lo scopo di innumerevoli spedizioni sparse per il mondo consisteva nella determinazione ottica dell’istante esatto di entrata e uscita del pianeta Venere nel disco solare. Difatti, la constatazione di questi contatti, la loro osservazione da due località distanti sulla superficie terrestre insieme alla comparazione degli orari di entrata e uscita di Venere rispetto al Sole, avrebbero consentito di ottenere, mediante un calcolo trigonometrico, il valore della distanza tra la Terra e il Sole, ossia, “la base di tutte le misure astronomiche […] il metro del sistema del mondo e di tutte le stime delle distanze celesti”.5 Non solo. Il gesto di Janssen di puntare il revolver fotografico al cielo per descrivere il movimento degli astri veniva a corroborare, per così dire, la filiazione del suo dispositivo proto-cinematografico con il telescopio galileiano e con tutti quegli strumenti ottici che l’umanità ideava per sopperire alle carenze fisiologiche dell’occhio umano nella percezione dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo. Ma se il telescopio e il microscopio esplorano le dimensioni dello spazio, il revolver cinematografico e il dagherrotipo, con la registrazione delle diverse fasi del passaggio di Venere dinanzi al Sole, oltre ad aver permesso la misurazione più precisa della distanza tra la Terra e il Sole e di aver provato che la corona solare non era dovuta ad un effetto di rifrazione nell’atmosfera terrestre, allargarono maggiormente lo spettro di analisi delle cosiddette “filosofie della lente”6, inaugurando gli studi del movimento e della sua variazione nel tempo, e il debutto, in ambito scientifico, di uno strumento capace di registrare i fenomeni per reiterarli nel tempo in vista di successive analisi e future condivisioni.

Sebbene il revolver fotografico non riuscisse a riprodurre il movimento nel suo dinamismo, lo strumento di Janssen era fortemente legato all’osservazione dei moti astrali mediante l’analisi di una serie di immagini fotografiche, la cui funzione era quella di scomporre in varie fasi di breve durata, separate da intervalli regolari, il passaggio di un corpo celeste dinanzi ad un altro. Si trattava di una anticipazione di quello che successivamente sarà il time-lapse cinematography, tecnica attraverso cui si potrà realizzare la condensazione del tempo reale, consentendo così la disamina di movimenti troppo lenti per poter essere percepiti ad occhio nudo. In questo modo Janssen studiò e seguì il fenomeno, soprattutto isolando i momenti di maggior interesse per analizzarli nelle loro parti costitutive e non di certo per riprodurre il movimento nella sua continuità.

Per queste ragioni, Janssen considerò la fotografia uno strumento prezioso per la ricerca scientifica, sia per la sua capacità di fissare fedelmente e riprodurre a posteriori il fenomeno osservato, sia per l’attitudine a oltrepassare i limiti intrinseci alla natura umana. A questo proposito sono emblematiche le parole dello stesso Janssen quando affermò che la fotografia è “l’occhio universale”7, “ben superiore all’occhio umano perché, da un lato, essa registra le tracce del fenomeno che ha percepito e, dall’altro, in certi casi, vede di più”8 dal momento che, parafrasando le parole dello stesso Janssen9, è in grado di fissare le immagini, di formarle con uno spettro di raggi molto più esteso di quelli che colpiscono la nostra retina e di accumulare, infine, l’azione esercitata dalla luce per un tempo, per così dire, illimitato.

Il rapido declino del dagherrotipo, sostituito dalla tecnica del collodio umido (1851) e successivamente dalla lastra secca al bromuro d’argento (1871-1879), favorì non solo la nascita della fotografia astronomica, le cui immagini fissavano, fino a circa il 1880, le osservazioni realizzate dall’occhio umano, ma condusse il metodo fotografico oltre le potenzialità fisiologiche dell’essere umano. L’osservazione visiva sarà sostituita definitivamente dall’avvento della spettroscopia e dalla fotometria, le cui immagini offrono informazioni inaccessibili a occhio nudo, come la temperatura, la densità e la composizione chimica o la misura della potenza e dell’energia che sostengono le fonti luminose, dando vita alla moderna astrofisica. In questo senso, la citazione di Janssen sopra menzionata evidenzia e comprova inevitabilmente la capacità del supporto fotosensibile di captare tutte le radiazioni elettromagnetiche, dagli infrarossi ai raggi gamma, facendo divenire possibile non solo la misurazione delle distanze tra i corpi celesti e le galassie, ma anche l’analisi temporale della luce, la cui provenienza remota darà a vedere il passato dell’universo, le sue immagini primordiali. Come è ovvio, a quei tempi Janssen si dedicava allo studio delle nebulose, delle eclissi, delle comete, dell’effetto dell’irradiazione fotografica per quanto concerne la fotosfera, nonostante il suo dispositivo cominciasse a indebolire l’edificio newtoniano dello spazio e del tempo assoluto, lasciando intravedere, facendo nostre le parole di Jean Epstein10, le possibilità della “rappresentazione visiva di un universo transcartesiano, di uno spazio-tempo eterogeneo e asimmetrico”.

È proprio quello che ci mostra[rá a breve] l’esperienza cinematografica che non è così distante da osservazioni ritenute più scientifiche da non poter essere confermata da queste ultime. Una certa nebulosa la vediamo, ad esempio, esattamente come era un secolo fa. L’espansione dell’universo può far sì che quella galassia e il nostro pianeta si allontanino l’uno dall’altra, entrambi a una velocità pari a tre quarti di quella della luce. In capo a un anno, potremo vedere la nebulosa in uno stato anteriore di cento anni e sei mesi secondo la nostra cronologia. Dunque, in un lasso di tempo durante il quale noi saremo invecchiati, vivendo un anno diretto dal passato verso il futuro, la nebulosa sarà ringiovanita sotto i nostri occhi, vivendo sei mesi diretti dal futuro al passato.11

E sarà proprio il cinematografo, questo automa della visione il cui meccanismo assicura per la prima volta nella storia l’iscrizione fotografica del tempo e la registrazione simultanea dello spazio, a concepire una nuova immagine dell’universo, svelando l’inconsistenza della dicotomia tra istantaneo e durata, discreto e continuo. Del resto, l’incostante mobilità delle forme che fluiscono sullo schermo cinematografico, la dilatazione e/o riduzione dell’estensione e della successione dei fenomeni registrati, rivelano la natura più intima della materia, la cui consistenza non è altro che energia localizzata dentro di una determinata e limitata cornice spazio-temporale percepibile dai nostri sensi. Come scrive Epstein12:

il cinematografo ci mostra che la forma è lo stato precario di una mobilità fondamentale e che, poiché il movimento è universale e variamente variabile, ogni forma è incostante, inconsistente, fluida. La supremazia del solido si trova improvvisamente minacciata; esso rappresenta solamente un genere particolare di apparenze proprie ai sistemi di ordinaria esperienza e a misura umana, che sono a movimento costante o debolmente e uniformemente variato.

di FRANCESCO GIARRUSSO


1 Hervé Faye, “Sur les observations du Soleil, séance du lundi 19 février 1849”, Comptes rendus, n. 18, 1849, p. 243. Traduzione dell’autore.

2 Operazione complessa volta all’osservazione di un corpo celeste nell’istante del suo passaggio al meridiano dell’osservatore al fine di calcolare la misura esatta della sua distanza dai poli terrestri. Ottenute in tal modo le coordinate, è possibile individuare l’esatta posizione dell’astro nella volta celeste.

3 Hervé Faye, “Sur l’observation photographique des passages de Venus et sur un appareil de M. Laussedat, séance du lundi 14 mars 1870”, Comptes rendus, n. 70, 1870, p. 543. Traduzione dell’autore.

4 Pierre Jules Janssen, “La Photographie céleste”, in Henri Dehérain (a cura di), Œuvres scientifiques, vol. II, Parigi, Société d’éditions géographiques, maritimes et coloniales, 1929-1930, p. 50. Traduzione dell’autore.

5 Camille Flammarion in Monique Sicard, “Passage de Vénus. Le Revolver photographique de Jules Janssen”, Études photographiques, n. 4, 1998 <http://etudesphotographiques.revues.org/157> [ultimo accesso 19 marzo 2017]. Traduzione dell’autore.

6 Per maggiori approfondimenti, si veda Jean Epstein, “Il cinema del diavolo”, in Valentina Pasquali (a cura di), L’essenza del cinema. Scritti sulla settima arte, Venezia-Roma, Marsilio/Scuola Nazionale di Cinema/Edizioni Bianco & Nero, 2002.

7 Pierre Jules Janssen, “Discours prononcé à la fête du cinquantenaire de la divulgation de la photographie, le 19 août 1889”, in Henri Dehérain (a cura di), op. cit., p. 169. Traduzione dell’autore.

8 Pierre Jules Janssen in Albert Londe, La Photographie dans le arts, les sciences et l’industrie, Paris, Gauthier-Villars, 1888, p. 8. Traduzione dell’autore.

9 Cfr. Pierre Jules Janssen in François Launay, “Jules Janssen et la photographie”, in Q. Bajac, A. de Gouvion Saint-Cyr (a cura di), Dans le champ des étoiles. Les photographes et le ciel 1850-2000, Parigi, Éditions de la Réunion des musées nationaux, 2000, p. 26. Vorrei, inoltre, ricordare, che tale volume costituisce una delle fonti più ricche per quanto concerne la bibliografia del presente articolo. A questo proposito menziono anche Monique Sicard, La fabrique du regard, Paris, Éditions Odile Jacob, 1998.

10 Jean Epstein, “Il cinema del diavolo”, op. cit., p. 169.

11 Ivi, p. 164.

12 Ivi, p. 186.

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