In greco antico la parola ζώνη (zónē) si riferiva alla fascia che si metteva ai fianchi delle donne per stringere la tunica. Si riferiva pure alla cintura matrimoniale da cui le espressioni “annodare la cintura”, sinonimo di sposarsi, “sciogliere la cintura alla sposa”, sinonimo di realizzare l’atto sessuale e “non portare la cintura”, sinonimo di essere vergine. Infine, la cintura si riferiva anche alla gravidanza. Si diceva “portare in grembo il peso del figlio”1 per dire che il nascituro pesava nel grembo della madre e “sciogliere la cintura per il parto” significava dare alla luce. Meno spesso la parola era utilizzata per designare il cinturone maschile, come le stelle della cintura di Orione, alludendo, attraverso il verbo ζώννυμι (zōnnumi), a una serie di pratiche di combattimento: l’atto di andare in circolo attorno al ring, di annodare il tessuto di lino intorno ai pugni, e dunque, in senso figurato, tutta la preparazione alla lotta. Cingere il nemico con le braccia o un esercito che si dispone in formazione circolare. In senso derivato ζώννυμι passò a designare l’atto di lottizzare e ζώνη un’area del pianeta, una sfera planetaria o una zona presidiata da determinati esseri divini. E infine la fascia del fregio in architettura, le striature di un pesce e le papule della varicella.
Nelle lingue latine contemporanee la “cinta” designa allo stesso tempo una cintola e un’area che circonda la città (cinta industriale, cinta di miseria) e in francese la parola enceinte (dal latino cingere) può significare tanto un muro che circonda una città (una cinta) quanto una donna incinta. Lato di dentro/lato di fuori che si stabilisce a partire da una separazione fisica o mentale, la Zona tanto sorge da un limite come designa il limite stesso, lo spazio limitrofo e l’azione di cingere, attorniare, proteggere. Dall’altra parte, la Zona è lo spazio del germoglio, bouleversement, lo schiudersi e la fine del limite – l’apertura della cinta, l’atto sessuale e l’affiorare di una nuova realtà.
La Cinta di Thiers fu l’ultima a circondare la città di Parigi. Costruita tra il 1841 e il 1844, esistette nella sua interezza fino al 1919, data di inizio della sua demolizione. Intorno alle sue fortificazioni c’era la zona non aedificandi, area in cui si proibiva la costruzione di edifici e case che impedissero la visibilità dei cannoni della città. Alla fine del XIX secolo, i terreni incolti della zona non aedificandi cominciarono ad essere occupati, costituendo a poco a poco una gigantesca bidonville circolare, cinta di baracche, orti e strade improvvisate che circondò la città per più di settant’anni, e che, senza trovarsi a Parigi o nei sobborghi circondanti, divenne conosciuta come La Zone.
I suoi abitanti rimasero conosciuti come zonards. Molti erano stati espulsi dal centro dalla speculazione immobiliare e erano soprattutto straccivendoli (chiffonniers), commercianti ambulanti, lavandaie, operai, artisti di strada, clochard, prostitute e contrabbandieri. Gli straccivendoli lavoravano raccogliendo il cumulo di oggetti lasciati per le strade e i rifiuti della città, oggetti che portavano in officine di riciclaggio o rivendevano nei mercatini delle pulci che sorgevano intorno alle porte della città.
Riferendosi alla poesia di Charles Baudelaire, Il vino degli straccivendoli, Walter Benjamin dice che lo straccivendolo non necessita di stare sotto l’effetto dell’alcool per andare barcollando, “perché deve pur fermarsi a ogni momento per raccogliere i rifiuti che getta nella sua cesta”.2 Mettendosi in sintonia con le strade della città, è l’osservazione degli oggetti che lo ubriaca, i rottami dell’uomo moderno servendogli da vino. In modo tale che – ognuno con la propria ubriachezza –, in quanto Baudelaire identificava lo straccivendolo col poeta, Walter Benjamin lo identifica col lo storico, personaggio che vive della spazzatura, “che è vestito di stracci e che si occupa di stracci”3, parlando della storia attraverso i suoi rifiuti, cristallizzando idealmente, attraverso i vicinati e non le totalità, la massa informe dei materiali in “immagini dialettiche”.4 “Punto gravitazionale” a cui tutto arriva nel capitalismo industriale, lo straccivendolo si serve dei rimasugli della storia, “[t]utto ciò che la grande città ha gettato, ha perduto, ha disdegnato, ha frantumato, [egli] lo cataloga, lo colleziona”5 metodicamente.
Negli anni Sessanta le bidonville sono rimosse dalla Zona, i suoi abitanti rialloggiati in complessi abitativi fuori della città, in quanto si costruisce gradualmente, dal 1959 al 1973, la circonvallazione di Parigi. Costruita dove prima si trovava la zona non aedificandi, il Boulevard Périphérique diviene il nuovo limite tra Parigi e le banlieue. Cinta post moderna a forma di viadotto circolare, tra i suoi pilastri sorgono le nuove bidonville, abitazioni effimere costruite in buona parte dai Rom, molti di loro divenuti i nuovi straccivendoli della città.
Così, i viadotti inaugurano, negli anni Sessanta, un misto di cinta, autostrada e Zona capace, allo stesso tempo, di connettere aree lontane della città, di tagliare il tessuto urbano e di generare, in queste fessure, Zone che sfuggono al controllo dello Stato. In questa nuova Zona, il concetto di territorio entra in crisi e si svela, come un guanto alla rovescia. I tre territori – il territorio degli scambi simbolici e delle merci, il territorio dell’agglomerato delle opere architettonico-urbanistiche e il territorio naturale, della topografia e dell’ecosistema – si confondono in una specie di zona di contatto, senza che, tuttavia, essa sia sottoposta a un Centro di Controllo. Crocevia da cui non scaturisce nessuna città, nella Zona tutto si svuota, come se si trattasse di un taglio che allo stesso tempo riunisce e separa i vari strati del territorio. E tutti quelli che hanno a che fare con la Zona finiscono per diventare decompositori che si alimentano di essa, risignificando tutto ciò che lì si trova in fertile compostaggio.
Allora, un nuovo tipo di spazio genera una nuova forma di camminare, e se nella Zona antica di Parigi il principale tipo sociale era quello dello straccivendolo in contrapposizione al flâneur, nella Zona post moderna sorge la figura dello stalker. Ed è nel libro sovietico di fantascienza Picnic sul ciglio della strada (1972) che si plasma per la prima volta il concetto di Zona collegato a quello di stalker.
All’inizio del libro dei fratelli Arcadi e Boris Strougatski, la Zona è descritta come uno spazio che nasce dalla Visita. La Visita si ha con la caduta di sei meteoriti in differenti aree del pianeta, dando origine alle sei Zone che da subito sono comparate a buchi di proiettile. La Visita è, pertanto, il disastro prodotto dal passaggio di esseri extraterrestri sul pianeta e la Zona ciò che resta di questo passaggio: rovine e oggetti incomprensibili, abbandonati.
Nella Zona, lo spazio e il tempo si alterano mostruosamente, minacciando di ingoiare personaggi e lettori che si avventurano nei suoi paraggi. Si produce un effetto comparabile a quello dei racconti di Howard P. Lovecraft, dove l’orrore si manifesta non attraverso la descrizione di oggetti o personaggi, ma attraverso una dimensione spazio-temporale inenarrabile perché informe, flusso composito e mutante che affascina e ripudia.
All’inizio, tutti quelli che entravano nella Zona scomparivano per sempre. Poi sorsero guide capaci di uscirne vivi, uomini miserabili alla ricerca di oggetti fantastici che gli potessero rendere qualche spicciolo. Sono gli stalker, camminatori che entrano in simbiosi con la Zona, captando ritmi e segni particolari, inseguendo frequenze come se fossero antenne umane. Vanno col naso incollato a terra, annusando le alterazioni dello spazio e fanno uso di tecniche apparentemente infantili per evitare le trappole della Zona, come lanciare il dado di un bullone legato ad un panno per vedere se l’oggetto scompare o se il cammino sia praticabile. Infatti, è come se camminassero sul corpo di un mostro che sogna e che può svegliarsi in qualsiasi istante.
Serge Daney dice che Stalker (1979), il film di Andrej Tarkovskij basato sul libro dei fratelli Strougatski, “è prima di tutto un documentario su un certo modo di camminare che forse non è il migliore (soprattutto in URSS), ma che è tutto quello che resta quando tutti i punti di riferimento sono scomparsi”.6 Un modo di rivisitazione post-industriale di caccia paleolitica, si tratta di una forma di camminare che scaturisce da una rottura simbolica, sbriciolamento di paradigmi socioculturali che ci servivano come riferimenti e che in forme diverse indicavano da dove venivamo, dove eravamo e verso dove andavamo.
Nel film di Tarkovskij l’obiettivo è quello di arrivare nella Stanza dei Desideri, centro di un mondo senza centro, l’equivalente della Sfera d’Oro nel libro dei fratelli Strougatski. All’arrivo dinanzi alla sua entrata lo stalker indica che, più che cercare un senso o un oggetto nella Zona, è necessario credere nell’impossibile affinché la Stanza realizzi i nostri desideri più reconditi, convertendosi non in un luogo di cupidità, ma in un embrione per una nuova umanità. Si tratta di una logica dell’assurdo che Tarkovskij introduce nelle rovine della tecnologia, vedendo, nella resa assoluta ai poteri della Zona, una forma di trasmutare la spazzatura non in merce, ma in una nuova divinità possibile.
Pochi anni dopo Chris Marker descrive nel suo film Sans Soleil (1982) una Zona costituita da immagini elettroniche. Citato nel film dalla voce del narratore, Hayao è un personaggio che inserisce immagini mortifere in un sintetizzatore elettronico. Immagini del passato traumatico sono deformate come i suoni di una tastiera, divenendo non-immagini, unico modo, secondo Hayao, di rappresentare “non-ricordi” e “non-personaggi”. Hayao battezza questo universo di immagini elettronicamente mostruose Zone, in omaggio al film di Tarkovskij.
La Zona spirituale e tecnologica di Chris Marker sorge da un buco nella memoria, fenditura che frattura la rete simbolico-virtuale delle immagini elettroniche. “La nostra memoria non può conservare le immagini traumatiche se non in forma sfilacciata, come latte acido, i cui ingredienti decomposti sono in movimento e non smettono di costruire nuove costellazioni.”7 Così, un impatto traumatico nella memoria collettiva genera uno spazio “increspato di pieghe, raggrinzito, sudicio di segni”, discontinuità fondamentale a partire dal quale nuove relazioni immagetiche e narrative possono emergere. La Zona di Hayao è, dunque, un sistema variazionale che produce nuove spazialità possibili, deturpazioni di un mondo che si incontra tra il buco “astratto” prodotto dal trauma (della guerra e della miseria) e la ricostruzione “figurativa” della memoria ufficiale.
La Zona è, pertanto, uno spazio di distruzione che, ad essere intravisto virtualmente e al di là della “estetica della rovina” e della logica dell’indice, evidenzia straordinari incroci di linee di forza che tutto sfigura, producendo la formazione di relazioni sociali e affettive sconosciute e l’implementazione di nuove figure epistemiche. Ed è in questo spazio, in cui si congiungono nature composite a partire dai detriti di una struttura esplosa, che vivono gli storici, i poeti, gli straccivendoli, gli stalker, collezionisti e cacciatori di ricompense, esseri che creano la propria vita da pieghe nel tempo, risignificando i detriti spurgati dalla città-cervello in erosione, sia negli interstizi urbani o ciberspaziali.
Cominciammo il testo affermando che la Zona può essere una cintura, una demarcazione e uno spazio di germinazione. La Zona è, dunque, tanto un taglio quanto uno spazio pregnante da dove possono fiorire nuove relazioni di posizionamento. Incrocio di desiderio e di orrore che si dà ai margini della città e del ciberspazio, Zona di contatto che sorge da sedimentazioni della mente e della materia in un territorio mutante, spazio di contatto simbolico che si oppone ad un altro incrocio, quello del Centro di Controllo e della console di informazioni.
di LUCAS PARENTE
1 In questo caso la traduzione dal portoghese all’italiano dell’espressione idiomatica non ha consentito il mantenimento della parola “cintura”. [N.d.T.]
2 Walter Benjamin, Parigi capitale del XIX secolo. I “Passages” di Parigi, in Giorgio Agamben (a cura di), Opere complete, 12 voll., vol. XI, Torino, Einaudi, 1986, pp. 403, 412.
3 Ivi, p. 383.
4 In questo senso, così come il bricolage si oppone all’ingegneria, la Zona si opporrebbe alla città, e i zonards ai cittadini. Stando fuori dalla storia, la ricreano. Ne Il pensiero selvaggio, Lévi-Strauss definisce il bricolage come un pensiero in atto che parla delle cose attraverso le cose stesse, che si serve degli oggetti in mano per re-con-figurare il mito attraverso il rito.
5 Charles Baudelaire, “Del vino e dell’hascisc”, in Paradisi artificiali, trad. it. di Cecilia Ghelli, Milano, Garzanti, p. 11.
6 Serge Daney, Ciné-Journal, trad. it. di Serafino Murri, Claudio Fausti, Roma-Venezia, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema-Marsilio, 1999, p. 55.
7 Thomas Tode, “Fantasma Marker: inventario antes del film”, in Antonio Weinrichter, María Ortega (a cura di), Mystère Marker – Pasajes en la obra de Chris Marker, Madrid, T&B Editores, 2006, p. 70.