Paola Brambilla, delegata WWF Italia per la Lombardia |
Ogni scritto, ogni riflessione è un viaggio. Per arrivare alla meta c’è un percorso, spesso più importante della meta stessa, per via dei momenti e dei gesti che si sono fissati indelebili nella nostra memoria, a cui solo dopo, voltandoci indietro, abbiamo potuto attribuire un univoco significato prefigurale.
Anellidofilia
Bambina, nel giardino dell’asilo, raccoglievo i lombrichi che dopo il temporale si attardavano sui vialetti e, preoccupata che venissero calpestati, li riportavo al sicuro in mezzo all’erba. Dopo poco tempo i miei compagni dell’asilo, quando vedevano un lombrico, non lo schiacciavano più, ma mi chiamavano per questa sorta di pronto intervento, benefico per le loro scarpe e i miei amici color greige; colore che fa tanto chic quando si parla di moda, ma forse un po’ meno quando si parla di vermi.
Certo, il servizio ecosistemico che rendono i lombrichi alla fertilità del suolo, arricchendolo di carbonato di calcio e di sostanze utili per il mantenimento di un substrato organico vitale per la crescita delle piante, l’avrei scoperto, però, solo dopo.
Diritto e barbarie. O barbarie e diritto
Dopo il liceo l’Università, come fa un motivetto di Bennato. Giurisprudenza, per un’ansia divorante di giustizia globale, anche se mio padre – un po’ bancario, un po’ poeta – diceva che non sarei mai potuta entrare in diplomazia, perché io ero nata per le dichiarazioni di guerra. Ovviamente si riferiva a una certa vis polemica che è comune però ai ragazzi che cercano la provocazione e il conflitto per svegliare il torpore degli adulti e portare in scena un disagio che sottende nuovi valori. I “nuovi barbari”, li chiama Baricco in un suo delizioso libretto che però, a dispetto del titolo, approfondisce questa tendenza: quella che ci fa spesso, da adulti, prendere le distanze da chi viene dopo, dal nuovo, dalle nuove armonie, dalle nuove forme d’arte, dalle nuove forme espressive, classificate di primo acchito come degenerazione o svilimento della “Cultura”, quella “Classica” con la C maiuscola. È già successo con Beethoven o con Wagner, che i contemporanei non apprezzavano e comprendevano, tacciando di eccessiva semplicità e scarsa raffinatezza le loro composizioni. Il nuovo però si è affermato, ha lasciato un segno forte, ha segnato l’estinzione di un clade nell’evoluzione musicale in questo caso, ma anche in quella letteraria, dando vita a una cultura in cui tutto è più alla portata di tutti, è più comprensibile, meno complesso. Si vendono più libri, si ascolta più musica, sempre più gente entra nei musei e va a visitare luoghi e città d’arte. Cultura e istruzione diventano meno elitarie, più accessibili, come si estende l’accesso alle professioni un tempo considerate di casta e riservate ai figli d’arte. È così che ho deciso di studiare diritto – anche se mia madre insegnava italiano alle superiori (di mio padre ho già detto) – per comprendere il senso e la pratica della giustizia, diventare avvocato e poter avere strumenti per difendere i miei ideali.
Crespi d’Adda
Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90 Crespi d’Adda era un ex villaggio operaio frutto della visione utopistica e sociale di un industriale illuminato, caduto in abbandono e lasciato all’incuria. La gente preferiva trasferirsi nei centri abitati moderni più vicini, Capriate e Brembate, vicino agli ipermercati, alle fermate degli autobus, a Minitalia – ora Leolandia – insomma in mezzo alla vita: in posti dove puoi tagliare le piante se ti fanno ombra, costruire una bella verandina in plexiglass se ti va perché la casetta ti sta stretta, o aprire velux su tutte le falde del tetto. Ecco che allora parte l’idea di un piano particolareggiato per lo sviluppo di Crespi d’Adda, un ridisegno urbanistico per modernizzare questa mestizia d’antan, questa cartolina sbiadita in 3D, sopravvissuta alla febbre del cemento armato e dei balconi in ferro battuto degli anni del boom economico; l’obiettivo del piano è quello di dare una botta di vita, ma sì, anche a loro, a questa collettività di esclusi ed emarginati dal vivace e frenetico mondo moderno.
Ma l’Adda è un fiume, e come tutti i fiumi è straordinario, è una culla di civiltà e uno scrigno di biodiversità allo stesso tempo, che qualcuno conosce ed ama davvero: ragazzi e gente del luogo, naturalisti che vi trascorrono giornate di studio di specie di fauna e flora rare ed endemiche, birdwatcher. Tra questi, i giovani attivisti di una sezione locale di una grande associazione internazionale che si occupa di ambiente: il WWF.
Preoccupati per le sorti di Crespi d’Adda, e di un suo snaturamento, decidono, in un epoca in cui ancora non c’erano normative a tutela della partecipazione alla pianificazione locale del pubblico e degli stakeholder, di buttar giù, quasi per sfida, delle osservazioni critiche a questo modello di sviluppo. Analizzano gli impatti della trasformazione proposta sull’ambiente, sull’aria, sul suolo, sull’acqua e mi chiedono (ero allora una giovane attivista ancora ai primi anni di università) di tradurli giuridicamente in una sorta di opposizione che contesti la legittimità di questa scelta. Scriviamo, per interi giorni, a più mani, ora cancellando, ora limando, ora accentuando tutta una serie di passaggi, le nostre osservazioni e le presentiamo alla Regione, alla Soprintendenza, alla Provincia, al Parco, ai Comuni. Si uniscono altre voci, il progetto rallenta, si ferma, arriva il riconoscimento Unesco. Crespi d’Adda vive. Quanto a me, decido che la mia strada è quella del diritto dell’ambiente, che voglio occuparmi di legalità ambientale.
Edward Lear, Nonsense Botany
Molti anni dopo io avrei davvero fatto dell’ambiente una scelta di vita, sia nella professione, come eco-avvocato, che nella vita, nei miei ruoli (pro bono) svolti all’interno del WWF. Un giorno, proprio preparando uno dei tanti interventi in materia di legalità ambientale e di difesa del pianeta per l’associazione, scopro l’esistenza di un botanico pazzo, un visionario, uno scienziato geniale e poliedrico come solo i geni sanno essere, che passa disinvoltamente dalla linguistica alle piante. Amico stretto del papà di Charles Darwin, in pieno Ottocento pubblica un libro illustrato, Nonsense Botany, in cui raffigura piante di ogni tipo e foggia, ora curiose, ora buffe, ora inquietanti, dai nomi evocativi, che come nella migliore tassonomia scientifica sono espressi in latino. Ed ecco che una di queste immagini mi folgora, come Saulo sulla via per Damasco. È il disegno della Manypeeplia Upsidownia, che in inglese sta per many people upsidown, cioè tanta gente a testa in giù. L’immagine è un evidente ed arguto paradosso, specie per l’epoca, caratterizzata dalla febbre del giardinaggio e della caccia alle rarità botaniche ed esotiche che poi ci ha lasciato in eredità i Kew Gardens; il paradosso è che noi, il genere umano, ci crediamo i grandi giardinieri dell’universo, gli artefici del disegno del landscape, da cui dipende la vita e la disposizione della vegetazione, ricreativa, da frutto o da seme, quando invece siamo noi (questo è il messaggio urlato da questa carta antica) a dipendere dalle piante. Siamo noi a dipendere dal pianeta. La botanica di Lear, il tratto dell’artista scienziato, preconizza e ridicolizza, ante litteram, la presunzione dell’antropocene.
Doughnut Economy, l’economia della ciambella
Da un libro antico a un libro moderno. Una giovane e brillante economista inglese, docente nelle storiche università di Oxford e Cambridge, movimenta la raffigurazione piatta e bidimensionale dei Global Sustainable Development Goals dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite e propone un nuovo modello di economia circolare, il modello dell’economia della ciambella: quella americana, con la glassa rosa e gli zuccherini sopra, per intenderci, che tutti gli adolescenti amano.
Il genere umano, spiega in questo testo, per vivere in uno spazio sicuro e giusto, deve stare nello spazio intermedio tra i due anelli della ciambella, quello interno fatto dai diritti fondamentali (al cibo, al lavoro, all’istruzione, all’uguaglianza di genere, alla salute e via dicendo) e quello esterno fatto dai cosiddetti limiti o confini planetari: i cambiamenti climatici, il ciclo dell’azoto e del fosforo, la contaminazione, gli aerosol chimici, il buco nell’ozono, l’acqua dolce, la biodiversità, il consumo o trasformazione del suolo. I primi sono il pavimento, la base per una vita dignitosa e giusta, gli altri sono il soffitto che ci protegge e ci rende possibile la stessa vita sul pianeta. Ebbene, tre di questi grandi limiti sono già superati. Stiamo vivendo il dramma dei cambiamenti climatici e dell’innalzamento delle temperature dovuto ai combustibili fossili, alla zootecnia dei ruminanti e del consumo eccessivo di proteine animali; il ciclo dei nutrienti è completamente fuori controllo, e in soli quarant’anni, ci dice il Living Planet Report del WWF, che ogni due anni radiografa lo stato del pianeta vivente, l’uomo ha causato la perdita del 60% della biodiversità, specie animale, sulla terra e sotto le acque. La società, i modelli di consumo e di produzione e l’economia devono rispettare questi limiti planetari, puntando sui concetti di finitezza delle risorse, sull’importanza della nozione del limite, sulla conservazione dei servizi ecosistemici che ci rende la natura.
Se ci interroghiamo poi sui legami tra conservazione della natura e diritti fondamentali, la lezione di Dahrendorf, banalizzata quel tantino che basta, ci racconta che è un po’ come la storia dell’uovo e della gallina: nessuno sa con certezza quale è venuto per primo, ma senza l’uno non c’è l’altro. La stessa cosa vale per la democrazia e l’ambiente, è un dato che ambienti degradati ed esauriti dall’uomo spesso ospitano regimi tirannici o dittatoriali, caratterizzati dalla sistematica oppressione della popolazione e dalla negazione dei più basilari diritti umani, come pure è altrettanto noto che sistemi di governo non democratici portino a tassi di consumo altissimi e non oculati delle risorse naturali, a danno ultimo della stessa popolazione, che finisce per perdere la ricchezza fornita dai servizi ecosistemici in termini di cibo, fibre, sicurezza di vita e di salute. Uno studio di Ecofys, Istituto internazionale di studi economici improntato alla sostenibilità, condotto unitamente al WWF internazionale, ha messo in evidenza che cosa comporta uno scenario di business as usual o di fast forward, in cui il genere umano non rallenti o non inverta questa continua predazione insostenibile del capitale naturale: ebbene, nelle economie di mercato proprie dei paesi come quelli europei, con una presenza pubblica nell’economia ed uno stato sociale avanzato, l’emergenza ambientale con i danni correlati porterà necessariamente il pubblico a dover investire nella riparazione dei danni, nella loro mitigazione e, dunque, a dover disinvestire inevitabilmente nella tutela dei diritti fondamentali. La prima a saltare, nello scenario di cui abbiamo detto, sarà l’istruzione pubblica gratuita, condannata alla privatizzazione; poi verrà il turno delle prestazioni sanitarie, previdenziali e assistenziali, reddito di cittadinanza compreso. Questa è la complessità, bellezza, ma non è vero che non puoi farci niente. Puoi fare tutto.
L’esperimento carcerario di Stanford
Negli anni ’70, nell’Università di Stanford, il professor Philip Zimbardo decise di dar vita a un esperimento singolare, che ha fatto storia. Selezionò 24 studenti, tutti con le stesse caratteristiche di base: bravi ragazzi, studiosi, equilibrati, senza precedenti, a cui veniva offerto di partecipare, volontariamente ma a fronte di un adeguato compenso, alla simulazione della vita in un carcere, ricreato in alcuni locali seminterrati della facoltà di psicologia. Metà di loro, estratta a sorte, dovevano essere i secondini, l’altra metà i reclusi. L’esperimento però dovette venire interrotto dopo poco più di una settimana, perché le guardie avevano dato vita a comportamenti violenti e disumani verso i loro compagni designati a vittime, i quali a loro volta avevano perso il senso della finzione ed erano stati posti in una condizione di umiliazione e di sottomissione totale ed alienante. L’esperimento voleva essere il banco di prova della teoria della deindividuazione – per cui l’influenza della massa e del gruppo, la maschera del ruolo privano di autonomia critica l’individuo – e in ultima analisi della teoria situazionale, quella per cui l’individuo non è cattivo in sé e non nasce cattivo (teoria disposizionale), ma lo diviene in presenza di stimoli esterni e di attribuzioni sociali o istituzionali di ruoli in cui finisce per immedesimarsi, facendosi vettore di regole abnormi, metabolizzate come oggettive e necessarie, o ordini dati o naturali. È il paradigma della banalità del male, che rivive nelle parole di Hannah Arendt, dopo il processo di Norimberga.
Zimbardo, in un recente testo che ripercorre quei tragici fatti, racconta di aver verificato le stesse dinamiche nei fatti di Abu Ghraib, in cui i militari americani si resero responsabili di maltrattamenti, sevizie e torture inflitti ai prigionieri del carcere iracheno durante l’occupazione americana, dai tratti analoghi a quelli verificati nel suo esperimento. Chiamato come consulente della Difesa, lo psicologo accertò le stesse dinamiche, dopo aver peraltro chiarito come non le giustificasse affatto, ma come il suo interesse fosse quello di analizzare la genesi di questa deumanizzazione e deindividuazione, per poter comprendere chi la potesse evitare e come poterla evitare.
Un gesto ci salverà
Siamo una specie empatica, nonostante tutto, grazie ai neuroni specchio, che ci avvicinano ai nostri simili, ma che al contempo ci fanno sentire anche il dolore di un animale, ci fanno provare sofferenza alla vista del taglio di un albero monumentale, o delle immagini satellitari della deforestazione pluviale, o ancora dei grandi orsi bianchi ridotti a scheletri sporchi che cercano scarti di cibo nelle discariche delle cittadine del nord. La maggiore consapevolezza dello stato delle cose è dappertutto, anche in questa cultura fluida in cui i ragazzi e gli adulti spesso non approfondiscono i temi ma “surfano”, come dice Baricco, in superficie sui social, sui media on line, sui motori di ricerca che comunque distribuiscono informazioni di ogni genere, in modo democratico, a tutti. La nostra sopravvivenza, l’abbiamo visto, dipende dalla conservazione del pianeta, delle sue risorse, dal rispetto dei confini planetari, o boundaries, e allo stesso tempo dal rispetto dei diritti fondamentali che però, come abbiamo visto, sono indissolubilmente legati alla difesa del pianeta. In questa sfida epocale, forse l’ultima del genere umano, un gesto può fare la differenza.
Un gesto è schiacciare un tasto sullo smartphone per cercare di capire qualcosa. Un gesto è aprire un libro per leggere. Un gesto è andare alle assemblee pubbliche in cui si discute di giustizia, di diritti, di ambiente. Un gesto è scioperare i venerdì per andare alle manifestazioni di #FridaysForFuture. Un gesto è rimettere nel terreno un lombrico trovato sul marciapiede, ma anche raccogliere la plastica sulle spiagge o nei prati. Un gesto è sottoscrivere una petizione on line per una causa giusta. Un gesto è iscriverti alla scuola che credi ti darà gli strumenti e le conoscenze utili per difendere i tuoi ideali, a prescindere da chi sei e da dove vieni. Un gesto è scrivere un’osservazione critica a un progetto dannoso e dall’impatto irreversibile per l’ecosistema che ci ospita, o firmarla, o ancora agire in giudizio per la difesa dell’ambiente, sottoscrivendo un ricorso o un esposto.
Un gesto è la manifestazione visibile di un atto di riappropriazione della propria individualità, della propria autonomia, del proprio pensiero critico che diventa azione. Il gesto è il coraggio di trasformare la potenza in atto, di agire per il bene e il giusto, anche in contesti di massa, di pensiero unico con aspirazioni totalizzanti, o di ignavia, o ancora di complottismo. Sono tutti atteggiamenti che in fondo impingono un po’ nel cinismo, come alcuni personaggi azzeccati di Crozza: il materiale senatore Razzi, a cui importa solo della “crana”, quella sorta di hikikomori che è Napalm51, che vive nel suo mondo virtuale diffidando di tutto e vede cospirazioni dietro ogni cosa, o la caricatura di Feltri, che si isola in un’ipostatizzazione borghese tetragona ai problemi del mondo.
Noi però, mi piace ricordare, quando vediamo questi personaggi, sorridiamo: e il riso è cosa buona, perché è un segnale di distanza, di una felice e consapevole distanza. Questi personaggi, questi mood non ci appartengono, quindi noi siamo diversi, sappiamo di poter essere diversi. Anche il riso è un gesto. La banalità del bene è dunque questa; non è eroismo, ma è la capacità di un gesto, a cui ne seguiranno altri. E del resto è un gesto quello che, nell’affresco della creazione di Michelangelo, dà vita all’uomo.