Il gesto fotografico. Una riflessione

Arthur Guillet, fotografo tradizionalista analogico |

Gèsto s. m. [dal lat. gestus -us, der. di gerĕre “compiere”]. – 1. Movimento del braccio, della mano, del capo, con cui si esprime tacitamente un pensiero, un sentimento, un desiderio, talora anche involontariamente, o si accompagna la parola per renderla più espressiva.1

Nell’aprile del 2018 la Nona Corte d’Appello della California ha stabilito che, se ti fai un selfie con una fotocamera presa in prestito, i diritti d’autore di tale immagine non appartengono a te, bensì al proprietario dell’apparecchio utilizzato. A patto di essere un macaco crestato. Apparteneva difatti alla specie dei Macaca nigra tale Naruto che nel 2011, all’età di tre anni, si era immortalato, fra una fotografia mossa ed una sfuocata, utilizzando la macchina di un fotografo inglese di nome David Slater, in Indonesia per seguire i suddetti primati. Naruto, come ogni scimmia della riserva, sa bene cosa sia una macchina fotografica: è cresciuto in costante contatto con fotografi e videomaker, fossero essi professionisti o semplici turisti.

Pertanto non c’è da stupirsi se, mentre Slater faceva una sosta, Naruto prese in prestito una sua fotocamera e si mise ad esaminarla in silenzio. Rimase presto affascinato dalla correlazione fra il premere il pulsante e il variare del suo riflesso sulla superficie della lente, allo scattare dell’otturatore. Iniziò così il gioco del mettersi in posa. Sorrise, s’aggiustò con fare serioso, aprì la bocca come se urlasse… Ad ogni scatto si relazionava con la macchina in maniera differente, con indiscutibile intenzionalità, consapevole che riflesso in quella lente vi era se stesso.

Alcuni di quegli scatti vennero pubblicati da Slater nel 2014, nel suo primo libro intitolato Wildlife Personalities, scegliendo per la copertina proprio un autoritratto di Naruto che sfoggia un gran sorriso. Il faccione sorridente divenne presto virale in rete, finendo quello stesso anno a far parte della pagina Wikipedia che descrive tali macachi, portando il fotografo britannico a dichiararla una violazione del copyright. Il sito replicò che, essendo la fotografia scattata – di fatto –  dal macaco stesso, Slater non ne poteva possedere i diritti: l’immagine era pertanto da considerarsi di pubblico dominio. E qui la cosa si fece ancora più interessante.

La controversia legale divenne intrinseca ad una, se vogliamo, etica. La PETA fece a sua volta causa al fotografo2, sostenendo che un macaco – o qualsivoglia altro animale – avesse gli stessi diritti di un essere umano sul copyright di un proprio prodotto;  pertanto, in quanto autore, Naruto poteva far causa a chiunque considerasse propria la fotografia. La sentenza finale della corte, la quale diede ragione al fotografo, basò la propria motivazione sul fatto che le leggi americane sul copyright non prevedono l’applicazione a un primato che non sia Homo sapiens: ovverosia ad ogni animale non-umano.3 Il macaco, non essendo giuridicamente riconosciuto, si riduce a strumento per mezzo del quale il fotografo ha acquisito quell’immagine e i diritti su di essa?4 Non vi è differenza quindi, fra un cinopiteco e un cavalletto munito d’autoscatto a timer?

I piccioni di Julius Neubronner5 per esempio, che nel 1907 ritrassero Francoforte dall’alto – e un decennio più tardi le trincee lungo la Somme e i forti difensivi del Verdun – erano solo droni ante litteram muniti di un meccanismo a tempo che seguivano un percorso predefinito? Al tempo di Cartesio gli animali erano considerati macchine, privi di coscienza: il cogito come frutto di autocoscienza era attribuito esclusivamente all’essere umano, il solo a interagire con cognizione di causa, tramite parole e linguaggio che possano trasmetterne i pensieri. Ormai da tempo molteplici forme d’intelligenza6 sono osservate ben oltre i nostri cugini primati: si è giunti a scoprire complesse e raffinate intelligenze anche in volatili, passando per cefalopodi, insetti e persino nelle muffe.7 Ma la ricerca è inevitabilmente antropocentrica, come fa giustamente notare Jennifer Ackerman: “[n]on possiamo fare a meno di misurare le menti di altri animali in rapporto alle nostre”.8

Ma tralasciando la questione prettamente specista, è davvero una minore capacità d’intelletto a negare il diritto d’appartenenza di un gesto? È la consapevolezza di un’azione a renderla legittimamente nostra? Sono domande che porterebbero senz’altro a discussioni quantomeno interessanti, ma che, ahimè, esulano dalla mia sfera di competenza. Dal canto mio, posso offrirvi un breve excursus – non escludendo altri voli pindarici – su ciò che può definirsi un gesto fotografico. Quindi se un’immagine prodotta da una fototrappola è attribuita a chi ha piazzato la camera e non all’animale che passando ne ha attivato il sensore, il gesto fotografico può essere anche un gesto progettuale, di pensiero? Pertanto: quanto il gesto concreto fa il fotografo? Quando qualcuno può affermare d’aver scattato una fotografia, e quindi, in ultima analisi, quando quest’ultima può dirsi tale? Per tornare a Naturo, è stato l’avanzato automatismo delle macchine moderne ad avergli permesso di scattare delle fotografie.9

Non senza ironia sono qui oggi a scrivere del “gesto fotografico”, quando centonovantatré anni fa “il grande miracolo della tecnica” nasceva proprio per eludere le scarse capacità di un aspirante incisore. In un certo senso, Joseph Nicéphore Niépce ideò l’eliografia proprio per evitare di compiere un gesto e riuscire a riprodurre lavori altrui: creò in sostanza il processo fotomeccanico. La stessa accoppiata di bitume di giudea e olio di lavanda da lui usata per le prime eliografie (tra cui la celeberrima, ma non certo prima!, Point de vue du Gras) era infatti un prodotto usato regolarmente dagli incisori di acqueforti per la sua resistenza agli acidi.10

A ben pensarci, anche le cianotipie botaniche pubblicate dall’inglese Anna Atkins nel 1843, erano anch’esse il risultato di un metodo più rapido d’illustrazione, catalogazione e identificazione della propria collezione di alghe.  La fotografia, nata come mezzo meccanico che sopprimeva una lunga e laboriosa riproduzione manuale, divenne ben presto pervasa dai gesti sapienti dell’alchimista, venendo percepita come un mezzo miracolo, al confine con la magia. Nonostante ciò, celebre è la smargiassata di Nadar, il quale già nel 1856 dirà:

La fotografia è una scoperta meravigliosa, una scienza che occupa gli intelletti più elevati, un’arte che acuisce le menti più sagaci – e la cui applicazione è alla portata dell’ultimo degli imbecilli. Questa arte prodigiosa che del nulla fa qualche cosa, quest’invenzione miracolosa dopo la quale possiamo credere a tutto […]. Ad ogni passo vedete operare fotograficamente un pittore che non aveva mai dipinto, un tenore senza ingaggio, e del vostro cocchiere come del vostro portinaio, io m’impegno – e dico seriamente – a farne in una sola lezione altri due operatori fotografici.11

Ma più di un secolo dopo, è ancora innegabile l’aura di stregoneria che circonda un fotografo ambulante all’opera con la sua camera afgana. La rapidità con la quale riesce a destreggiarsi fra bacinelle di sviluppo e piccoli contenitori all’interno di quella scatola – con una mano sola e senza poter vedere – non può che suscitare una certa ammirazione.

Quella ritualità che si acquisiva e si faceva propria nella preparazione di chimici, lastre e chassis, mutò inevitabilmente con le prime emulsioni flessibili, a rullo, create nel 1888 dalla Eastman Company. È qui che compare, sottoforma di un caricamento a farfalla metallica, il gesto che accompagnerà milioni di fotografi per oltre cento anni: l’avanzamento al fotogramma successivo. Che sia per un giro di manovella, per un rapido guizzo di una levetta o uno strascicato grattare singhiozzante di una rotella dentellata, in un solo, semplice, gesto, ci si è buttati alle spalle un intero mondo, per bruciare i tempi e proiettarsi immediatamente alla fototografia successiva.

Quel gesto a noi tanto famigliare come il premere un bottone – seppur oramai cerchietto sotto gli schermi dei nostri smartphone –, se dapprima era annegato fra cento altri gesti prima e dopo quello, ora si porta appresso poche, semplici operazioni: il puntamento, la selezione di diaframma e tempo, e, a seguire, l’avanzamento del fotogramma. Resta ancora il caricamento della pellicola, il quale – benché distante dall’inserire al buio il foglio della pellicola piana nello chassis; possibilmente dal lato corretto –, resta la croce di migliaia di fotoamatori. A venir loro in aiuto è ancora una volta la Eastman Company – oramai mondialmente nota come Kodak – che nel 1963 lanciò sul mercato un nuovo tipo di pellicola a inserimento rapido: la 126 Instamatic, da utilizzarsi esclusivamente con le apposite macchine Kodak Instamatic. Al fotografo non rimaneva che inserire la cassetta nelle fotocamere Instamatic e iniziare a scattare: un sistema a prova di errore.12 Ciò la rese una delle fotocamere più vendute del suo tempo.

Erano gli anni ruggenti delle macchine in plastica o bachelite, spesso a fuoco fisso, che noi oggi chiamiamo toy camere: macchine estremamente intuitive e semplificate. Ma erano anche gli anni d’oro delle istruzioni illustrate: “come impugnare e caricare correttamente la macchina”, “come inquadrare il soggetto”… La gestualità ora è meccanica e rapida, poco ponderata, tutto è già proiettato al risultato finale: una piccola riproduzione a colori saturi del momento appena osservato. Le fotocamere si riducono a scatole col quale catturare ricordi e bei momenti famigliari. Un puro gesto spontaneo, incredibilmente attuale, la cui coscienza va via via scemando. È grazie a questo genere di toy camere che tre delle dieci regole d’oro della lomografia predicano: “scatta senza guardare nel mirino”, “sii veloce”, “non pensare”. La decima e ultima regola dice anche “ignora ogni regola”, pertanto non so quanto detto in precedenza sia valido.13

Questa diversificazione delle fotocamere (conseguenza della specializzazione dovuta all’espansione di un mercato ora accessibile sia a professionisti che a amatori) non solo sopprime vecchi gesti – grazie ad autofocus, fuoco fisso, priorità diaframmi, avanzamento motorizzato, ecc – ma ne fa nascere di nuovi; gesti, se vogliamo “collaterali”. Pensiamo solo all’emblematico caso delle istantanee Polaroid: ciò che accomuna milioni di fruitori della celebre pellicola autosviluppante è l’iconico gesto di sventolare la fotografia tenendola dal bordo inferiore. Un gesto che rappresenta la Polaroid stessa, sebbene sia totalmente inutile e a volte persino sconsigliato.

Meno appariscenti, ma certamente più interessanti, sono invece abitudini più sottili, legate al vivere il proprio essere fotografo. Brassaï per esempio, con la sua 6.5×9 Voigtlander, determinava l’esposizione di scene notturne, come quelle pubblicata nel 1933 in Paris de nuit, fumando: se era presente una qualche illuminazione, esponeva la pellicola per il tempo necessario a fumare una Gauloise; se invece si trattava di qualche vicolo buio, una volta aperto l’otturatore si accendeva una più costosa Boyard. Si spinge ben più in là il fotografo inglese Michael Kenna: arrivando persino a esposizioni di sette, otto ore, a una fumata preferisce leggersi un libro o, se le circostanze lo permettono, abbandonare lì la macchina e andare direttamente a cena.

Apparecchi differenti portano inevitabilmente a pratiche e gesti molto diversi fra loro. Erano fotografi Richard Avedon, con la sua ingombrante Deardorff 8×10, gli chassis, le luci e i fondali bianchi ben pianificati; e Claude Nori, che all’occorrenza – non visto – cavava di tasca la sua Canon AF35M di plastica, autofocus, con avanzamento motorizzato e completamente automatica (non a caso i giapponesi la chiamavano Autoboy). Ma erano ugualmente fotografi l’addetto alle fotografie segnaletiche della polizia, il restauratore, l’astronomo col suo telescopio, e il chimico o il biologo chini sui propri microscopi. Come distinguere le due cose, dunque? Beh, una risposta può esser trovata nella consapevolezza del gesto, nel suo peso in quanto affermazione artistica o mera procedura tecnica. Quindi Anna Atkins, Auguste Adolphe Bertsch, Henry Draper o Andrew Ainslie Common non sarebbero da considerarsi fotografi? Forse.14

Nel 1896 Louis Darget e Hippolyte Baraduc, ispirati da quelle radiazioni che appena un anno prima il fisico Wilhelm Conrad Röntgen aveva provvisoriamente chiamato X, costruirono il radiografo portatile: una fodera per lastre che, applicata alla fronte, era in grado di fotografare il pensiero. Il tutto senza alcun meccanismo o gestualità.

Negli anni ‘70 dell’Ottocento ci fu un cardiologo francese, Etienne-Jules Marey, che era passato dallo studio del flusso sanguigno mediante congegni in grado di misurarne la pressione, alla registrazione delle movenze del volo degli uccelli tramite pantografi aerei. Una decina d’anni più tardi aggiunse al procedimento la fotografia, registrando grazie a una successione di scatti la deformazione del fumo attraverso degli ostacoli, per poi passare, con l’aiuto di Georges Demenÿ, all’intera figura umana in movimento. Ispirato dalla macchina con la quale l’astronomo Jules Janssen aveva catturato in sequenza il passaggio di Venere davanti al Sole nel 1874, Marey costruì il fusil photographique. Generando innegabilmente uno dei gesti fotografici più eccentrici di sempre: premendo il grilletto si azionava un disco che – compiendo un giro in un secondo – esponeva di seguito dodici piccoli fotogrammi in esso contenuti, immortalando il soggetto “mirato”. Marey, che spesso andava a caccia fotografica nelle campagne napoletane, a forza di puntare il fucile senza mai abbattere un uccello, era noto presso i locali con l’appellativo di “scemo di Posillipo”.

Nella maggior parte dei casi, la phōtos-grafia è anche skia-grafia: questo perché quando la luce colpisce una pellicola la annerisce, crea cioè un’ombra – il negativo –, dalla quale, solo in un secondo momento, può rinascere grazie alla stampa. Ed è qui che il gesto di un fotografo si palesa in tutt’altra forma. Se scattando una fotografia non si fa che contenere e incanalare entro certi meccanismi e linguaggi un gesto fatto concretamente dalla luce – e non dall’operatore –, nella fase di stampa il fotografo – o lo stampatore – si fa parte attiva del processo di scrittura dell’immagine. Le sue mani, dando ombra o più luce a certe zone dell’immagine rispetto ad altre, alterano le scale dei grigi, anneriscono e schiariscono, celando nei neri dei dettagli o facendoli riaffiorare dalle luci più alte, arrivando anche a modificare la figura stessa ritratta nella fotografia. Se l’intervento in questa fase è notevole, il risultato finale sarà strettamente legato alla gestualità dello stampatore e riproducibile da lui soltanto.15

Ne è un esempio emblematico l’opera del tipografo Mario Giacomelli: egli stravolgeva a tal punto le proprie fotografie16, esasperando i contrasti, coprendone o sbiancandone le parti – fino a portarle a volte in una dimensione d’incisione astratta – tanto da renderle pezzi unici, irriproducibili in seguito alla sua scomparsa.

Senza l’uso di un ingranditore, Edward Weston stampava i propri negativi “a contatto”, servendosi di una lampadina, una cornice e un cerchio di cartoncino all’estremità di un fil di ferro.17 Una tale povertà di mezzi affida ai soli gesti la riuscita della stampa (inevitabilmente mi torna alla mente Henri Cartier-Bresson: egli, che a ben vedere poco s’interessava al processo di stampa, sosteneva che mezzi limitati permettono di ottenere il massimo risultato: un’economia di accessori evita inutili distrazioni).

Portando infine alle estreme conseguenze le gestualità di un fotografo – e arrischiandoci in un territorio polimorfo, non ben classificabile – giungiamo al chimigramma. Echeggiando i frenetici disegni di luce sperimentati da Gjon Mili e l’arcaica bonaccia delle lumen print – a cavallo fra fotografia astratta e la pittura informale – il chimigramma è un action painting di reagenti chimici. Da quando Pierre Cordier applicò dello smalto per unghie su di un pezzo di carta fotografica nel 1956, ogni sorta di prodotto è finito in ammollo nella vaschetta di sviluppo. I fogli fotosensibili sono stati spalmati di olio, burro, acrilico, uova, inchiostro, cera, sciroppo, lacca, zucchero, colla, vernice spray, pepe, mastice, burrocacao, sale, miele… per poi venir immersi nel rivelatore o nel fissaggio. O in entrambi. In una sequenza o nell’altra. Il tutto senza ingranditore, camera oscura o macchina fotografica; solo macchie, sgocciolamenti, raschiature, spennellate e impronte che si stagliano, si mischiano, si sfaldano venendo di volta in volta messi a bagno nei chimici. La resistenza e il consumarsi dei materiali usati preserva o fa annerire il foglio sottostante, in un risultato più o meno pilotato, più o meno casuale, più o meno astratto. Pura grafia di luce, più o meno fotografia.

 


1 Dal lemma “gesto” del Vocabolario Treccani <www.treccani.it/vocabolario/gesto/> [ultimo accesso 23 giugno 2019].
2 L’associazione animalista poté far ciò dichiarandosi next friend di Naruto. In ambito giuridico il next friend (o litigation friend) è una persona che rappresenta qualcuno senza tutore legale che sia impossibilitato a intervenire e/o difendersi in un caso giuridico poiché in carcere, o invalido fisicamente o mentalmente, o ancora giuridicamente troppo giovane. Per esser nominato next friend è necessario però un certo grado di parentela o vicinanza con la persona rappresentata: ciò spinse la corte a rifiutarne lo status da parte della PETA.
3 Nel Compendium of U.S. Copyright Office Practices del 2014 è abbastanza palese il ritenere una elaborazione intellettuale sola prerogativa dell’essere umano. Il paragrafo 306 The Human Authorship Requirement dà come requisito necessario per la protezione del copyright l’esser “‘the fruits of intellectual labor’ that ‘are founded in the creative powers of the mind’”, arrivando, al paragrafo 313.2 Works That Lack Human Authorship, a estraniare totalmente l’uomo dal suo essere un animale – un primate, per altro –, nonché parte della natura; afferma difatti: “[t]he Office will not register works produced by nature, animals, or plants. […] Examples: • A photograph taken by a monkey. • A mural painted by an elephant.”<https://www.copyright.gov/comp3/chap300/ch300-copyrightable-authorship.pdf> [ultimo accesso 23 giugno 2019].
4 Un caso simile è quello di videocamere installate su animali (come ha fatto nel 2018 la BBC col suo ciclo di documentari Animals with cameras). Qui la documentazione è continua e non circoscritta a un singolo scatto, sottraendo all’animale l’interazione con lo strumento e il ruolo attivo che ricopre nel produrre tali immagini.
5 Chimico, farmacista, inventore e fotografo tedesco che nel 1907 inoltrò domanda per brevettare un congegno composto da una minuscola macchina fotografica con meccanismo a tempo, munita di cinghie per applicarla al torace di piccioni viaggiatori. Ottenuto il brevetto, presentò la sua invenzione alle esposizioni internazionali di Dresda, Francoforte e Parigi nel 1909-1911, ricevendo due medaglie per metodo e per le fotografie. In seguito arruolati nell’esercito tedesco, piccioni muniti di tale imbragatura fotografica presero servizio in entrambe le guerre mondiali come ricognitori.
6 Possiamo definire l’intelligenza come la capacità di decodificare stimoli più o meno complessi; di apprendere dall’esperienza – e quindi di avere memoria –; di comprendere il principio di causa-effetto; di acquisire nuove capacità; di adattarsi all’ambiente ed escogitare soluzioni a nuovi problemi. Stando a queste definizioni, le piante, rientrandoci in pieno, ci mostrano come l’intelligenza possa benissimo svilupparsi anche senza un organo dedicato.
7 Già nel 1890 William James considerava nel suo The Principles of Psychology: “In vasti campi della scienza, l’appello alla continuità ha dimostrato un autentico potere profetico. Dovremmo quindi noi stessi tentare in ogni modo di concepire l’origine della coscienza così che non possa apparire come l’irruzione nell’universo di una nuova natura, inesistente fino ad allora.” Traduzione dell’autore. William James, The Principles of Psychology, vol. I, New York, Henry Holt, 1890, p. 148.
8 “Non possiamo fare a meno di misurare le menti di altri animali in rapporto alle nostre. Ma gli uccelli posseggono anche modalità di conoscenza che vanno al di là della nostra comprensione, e che non è facile congedare come meramente istintuali o innate. Che tipo di intelligenza permette a un uccello di anticipare l’arrivo di un temporale distante? O di trovare la strada per un luogo dove non è mai stato prima, anche se si trova a migliaia di chilometri di distanza? O di imitare con precisione assoluta i canti complessi di centinaia di altre specie? O di nascondere decine di migliaia di semi in un’area di centinaia di chilometri quadrati e ricordarsi sei mesi dopo dove li ha messi? (Io fallirei miseramente in questo genere di test di intelligenza, proprio come un uccello probabilmente non passerebbe i miei.)” Jennifer Ackerman, Il genio degli uccelli, Milano, La Nave di Teseo, 2016, p. 27.
9 “Chiunque può scattare fotografie. Sull’Herald Tribune ho visto quelle di una scimmia che si destreggiava con una Polaroid con la stessa abilità di molti proprietari di quella macchina. Proprio perché il nostro mestiere è aperto a tutti resta, a dispetto della sua allettante semplicità, molto difficile.” Henri Cartier-Bresson, Vedere è tutto. Interviste e conversazioni (1951-1998), Roma, Contrasto, 2014, p. 40.
10 La paternità dell’invenzione viene però comunemente attribuita a quella volpe di Louis-Jacques-Mandé Daguerre, sul cui raggiro ai danni di Niépce le pagine si sprecano. Il figlio di quest’ultimo, già un paio d’anni dopo l’annuncio dell’invenzione al mondo, pubblicherà Historique de la découverte improprement nommée Daguerréotype, précédée d’une notice sur son véritable inventeur feu M. Joseph-Nicéphore Niepce de Chalons-sur-Saone, opera dal titolo più che eloquente.
11 Dichiarazione rilasciata il 22 aprile 1856 presso il Tribunal de commerce de la Seine durante il processo contro il fratello per la rivendicazione del proprio pseudonimo. Traduzione dell’autore.
12 Il concetto verrà riproposto dalla Kodak due anni più tardi col celebre formato cinematografico Super 8 (e nel ‘72 miniaturizzerà il sistema delle 126 per le cosiddette fotocamere pocket, con il formato 110). Tentò di rilanciare l’idea nell’aprile 1996 col complesso sistema APS (Advanced Photo System), ma se l’innovazione era grande, la tempistica era pessima: qualche anno dopo le compatte digitali furono disponibili a prezzi abbordabili e tale prodotto divenne obsoleto.
13 Curioso constatare che il leggendario Robert Capa, che ben ignorava cosa sarà la lomografia, si avvalse di quelle stesse tre regole per immortalare il celebre repubblicano colpito a morte. Questo stando a una delle tante versioni dei fatti che lo stesso Capa snocciolò negli anni.
14 “La gente pensa che finché si vede qualcosa di carino, si possa fare una buona fotografia ed essere grandi fotografi, ma è come pensare che se si tiene una penna in mano si è un grande scrittore, e in quel caso nessuno lo penserebbe. Ma la fotografia sembra essere per la maggior parte delle persone così semplice da portarle a pensare che finché hanno una fotocamera, possono essere grandi fotografi. Ma loro non capiscono la luce.” Videointervista rilasciata da Bruce Barnbaum al magazine Fotoespresso durante il workshop Fine Art Photography della Heidelberger Sommerschule der Fotografie 2017. Traduzione dell’autore.
15 Jerry Uelsmann, avvalendosi di ben sette ingranditori con svariati negativi e mascherine ad hoc, impiega dalle otto alle dieci ore per ogni singola stampa, creando multiesposizioni surrealiste, echi di maestri come Dalì e Magritte, da far invidia anche al più esperto photoshopper.
16 Tanto che la sua stessa nipote, che oggi ne gestisce insieme alla madre il corpus fotografico dell’archivio, non riuscì a riconoscere il negativo della propria stampa preferita.
17 Possiamo vedere il maestro all’opera al ventesimo minuto del breve documentario del 1948 The Photographer diretto da Williard Van Dyke.

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