Arthur Guillet
Il bisogno di veder confermata la realtà e intensificata l’esperienza mediante le fotografie è una forma di consumismo estetico al quale tutti sono ora dediti. Le società industriali trasformano i loro cittadini in drogati d’immagini […]. In definitiva, avere un’esperienza si identifica col farne una fotografia e partecipare a un pubblico evento equivale sempre più a guardarlo in forma fotografata. Il più logico degli esteti ottocenteschi, Mallarmé, diceva che al mondo tutto esiste per finire in un libro. Oggi tutto esiste per finire in una fotografia.1
Era il novembre del 1888, quando comparve una reclame della Eastman Dry Plate & Film Company raffigurante una scatoletta in legno dotata di un bottone e una farfalla in metallo, affiancata dalla scritta: “You press the button, we do the rest”. Il messaggio, chiaro e senza fronzoli, giurava al pubblico che chiunque, con quella miracolosa macchina, poteva fare fotografie eseguendo tre semplicissime operazioni.2
Esattamente centoventritrè anni dopo, un artista e editore olandese di nome Erik Kessels scaricò e stampò tutte le fotografia che, nell’arco di ventiquattro ore, vennero caricate sul sito web Flickr, per poi accatastare tutto quel materiale stampato in una stanza del museo Foam di Amsterdam: una montagna di fotografie che agli angoli del locale finivano a sfiorare il soffitto; tutte concrete, da raccogliere, guardare, spostare, spulciare, camminarvisi sopra…3 I dati di quell’anno dichiaravano che ogni minuto venivano uploadate sulla piattaforma di Flickr quattromilasettecentotrentatrè fotografie al minuto.
Oggi (2018), grazie alla diffusione degli smartphone, vengono condivise su Instagram novantacinque milioni di immagini ogni giorno, fra fotografie e video. Insomma, già da parecchio tempo, ogni due minuti si producono più fotografie di quante ne siano state scattate in tutto il 1800. Si stima che in un anno ne vengano scattate 1,2 trilioni, ovvero milleduecento miliardi (di cui l’85% con uno smartphone). Sulla Terra siamo circa sette miliardi e mezzo. Se avessimo una fototessera per ogni abitante del pianeta, dal newyorkese che sta in un loft, al kazako nella yurta nella steppa, dalla casalinga di Bristol, all’impiegato di Shanghai, dallo sceicco del Qatar, al bidello di una scuola di Midrand, ebbene, ci mancherebbero la bellezza di millecentonovantaduemila miliardi e cinquecento milioni di fototessere per eguagliare la produzione planetaria di un anno in fotografie. Vi capisco, sono numeri astratti, difficilmente quantificabili. Vi ricordate l’ultima volta che avete guardato un limpido cielo stellato? Ecco, sappiate che, secondo le stime meno caute, nella nostra galassia vi sono “solo” quattrocento miliardi di stelle.4
Nel 19815 la fotografia si è spogliata del suo limite fisico: l’immagine comincia a avere una vita sconfinando il limite del negativo, il bordo della stampa cartacea. Da allora il nostro rapporto con la fotografia è radicalmente mutato; il vivere quotidiano ne è talmente saturo che il nostro cervello – il nostro occhio di conseguenza – ha imparato a ignorarne una grossa fetta di tutte quelle che ci circondano ogni giorno. Provate a alzarvi la mattina e contare le fotografie che incontrate soltanto nelle prime due ore della vostra giornata. Il risultato di questa iperproduzione è una massiva documentazione sui costumi sociali, moda, arte, scienza, vivere quotidiano nella società odierna (o quantomeno, in quella considerata occidentale, capitalistica). Ma, nonostante quest’immensa mole di informazioni, il nostro tempo rischia di divenire una sorta di nuovo Medioevo. Della vita di ogni giorno nel periodo medioevale sappiamo relativamente poco, e per lungo tempo ci era del tutto ignota; questo poiché l’alto tasso d’analfabetismo portava a tramandare informazioni oralmente, di padre in figlio, da mastro a apprendista, o tramite un cantastorie che andasse di villaggio in villaggio. I due maggiori mezzi di trascrizione di dati del tempo, i libri monastici e le decorazioni chiesastiche, erano di natura prettamente religiosa, e seppur si occupassero anche di filosofia e scienza i primi, e di costumi sociali e stagionali e credenze popolari le seconde, l’effettiva vita di tutti i giorni era per lo più esente da tali raffigurazioni.
È altamente probabile che per i posteri i nostri giorni saranno un enorme buco nella sequenza temporale della storia dell’uomo, per il mezzo col quale avviene il salvataggio della quasi totalità dei nostri dati: il 90% delle informazioni oggi le apprendiamo attraverso uno schermo, in forma digitale. E sono informazioni che noi stessi contribuiamo a creare e immettere in tale sistema, ogni minuto di ogni giorno. Quest’euforia digitale è dovuta all’inevitabilità del mezzo, oramai intrinseco al nostro vivere: comodità, immediatezza nella consultazione e nella comunicazione, enorme capacità di archiviazione, fanno del formato e linguaggio digitale il nostro ossigeno quotidiano. I loro vantaggi devono, però, fare i conti con la precarietà data dalla propria inconsistenza.
Il cosiddetto problema della preservazione digitale non è altro che la conseguenza dei ritmi sempre più frenetici dell’evoluzione tecnologica: ora che tutto è digitalizzato chiedersi quanto dura la vita di un determinato file è essenziale. Scongiurandone lo smarrimento, il danneggiamento da virus o da errori e crash di sistema, i vecchi dati diverranno comunque illeggibili per programmi più moderni. Pensiamo ai floppy disk, su cui venivano salvati dati anche importanti fino a vent’anni fa: ora sono solo dei sottobicchieri di plastica un po’ originali, poiché gli odierni computer non li decodificano più. Avete notato che la maggioranza dei portatili delle ultime generazioni non hanno in dotazioni il lettore compact disc, oramai in disuso grazie alle pen drive, allo streaming e al salvataggio in cloud? Quindi, per quanto gli attuali supporti saranno ancora validi? Le piattaforme in cloud saranno accessibili ancora fra cinquant’anni? L’obsolescenza di questi mezzi, resi incompatibili con nuovi sistemi di lettura, è correlata all’intervallo di tempo intercorso fra la nascita dei due mezzi, e tale intervallo è sempre più breve.6
Pare quasi che la longevità del supporto sia inversamente proporzionale alla sua capacità d’archiviazione: incisioni sulla pietra, tavolette d’argilla, papiri, fogli cartacei, floppy, compact disc, MP3… col crescere della quantità dei dati, la deteriorabilità del mezzo aumenta.7 Ora le informazioni sono dipendenti da input elettronici, e se, per una causa qualsiasi, Internet smettesse d’esistere o non fosse più accessibile, avremmo perso il più vasto database mai realizzato nella storia. La comodità del formato digitale può essere una lama a doppio taglio.8
Una lastra fotografica al collodio umido scattata nel Far West, è esattamente come nel momento in cui è stata sviluppata allora, se ben conservata.9 E se pure il tempo ha prodotto graffi, rotture e muffe, la fotografia è ancora relativamente leggibile, o comunque riconoscibile come tale. Se al contrario viene danneggiata una parte di quella sfilza di zeri e uno che compongono un’immagine digitale, essa sarà perduta. Questo perché – e spesso tendiamo a dimenticarlo – una fotografia digitale non esiste: non è infatti tangibile, finché non viene stampata. Non solo, quando noi non apriamo il suo file per guardarla, essa è dormiente in quel lungo codice binario. Anche se noi non li guardiamo, un negativo o una fotografia stampata continuano a esistere materialmente nella forma in cui li conosciamo, un’immagine digitale no.
La bozza di questo pezzo l’ho battuta con una Continental del 1936 e corretta con una stilografica rinvenuta chissà dove, e entrambe funzionano come il giorno in cui sono uscite dalle rispettive fabbriche. La verità è che gli oggetti ci sopravvivono. Se dei nostri bisnonni abbiamo un paio di fotografie – e a volte neppure quelle – delle vite dei loro nipoti esse abbondano, complice il boom economico. Intere esistenze erano raccolte in cinque, sei album. Oggi il numero di fotografie a narrare una persona è inimmaginabile, ma la loro natura è cambiata: è sparita la veste di solennità (anche scherzosa) che aveva allora immortalare un momento di vita. L’album di famiglia odierno esiste in tempo reale; e non è custodito gelosamente in qualche cassetto – eredità storica per le future generazioni – ma condiviso disinteressatamente. Lo specchio della nostra esistenza vaga nell’etere cibernetico. Stiamo inflazionando la preziosità di ciò che viviamo, il privato e il pubblico si stanno confondendo sempre più: perdiamo l’intimità.
Far diventare significativi tutti gli attimi della propria vita, così da renderla interessante a chiunque la guardi, annichilisce di fatto gli eventi davvero importanti, ora perduti in migliaia di istantanee inutili. Così la fotografia in quanto singola rappresentazione di un evento, un’esperienza, un periodo della nostra vita scompare, e viene sempre più sostituita da una gallery: un breve fotoromanzo, tassello di una catena più vasta, di un diario per immagini che narra la nostra intera vita, spesso a pubblica fruizione. Le generazioni più giovani vengono fotografate giornalmente, ora per ora, da quando sono nate (rischiando di indurle a un’eccessiva consapevolezza di sé, un egotismo che le pone sempre al centro degli avvenimenti e delle loro conseguenze). La nostra vita, e le nostre esperienze superficiali, sopravvivranno a noi stessi: saremo flussi di immagini e hashtag che vagheranno nell’etere anche dopo la nostra dipartita: l’esempio visivo di ciò che Don DeLillo accenna in Cosmopolis.10 La fotografia è divenuta la stenografia della realtà, come auspicava Charles Baudelaire nel suo Salon de 1859: un’annotazione, una didascalia a ciò che stiamo facendo; un medium asservito alla propaganda di sé, allo scopo di un’interazione sociale fine a sé stessa – non più interpretazione, non più arte. Ora gli smartphone hanno software che ci informano sull’orario e sul luogo in cui una fotografia è stata scattata, allontanandola sempre più dal suo essere fotografia, e mutandola in mollica di pane di una pista tracciata per chiunque voglia seguirci. Un noto fotografo una volta disse che un giorno avrebbe fatto il libro delle fotografie che non era riuscito a scattare: una pubblicazione parecchio corposa. La fotografia in tasca a tutti ha ridotto questo tomo di occasioni perdute – e ricordate – in un opuscoletto di qualche pagina.
La democraticità dell’odierna tecnologia ha reso il fotogiornalismo non più un appannaggio di reporter e fotografi d’arte; il destinatario tipico di tale tecnologia è divenuto il social network, ed ecco che invece di documentare il mondo che ci circonda, mostriamo sempre e solo noi stessi. Dai selfie, alle sfere affettive e gli ambienti che frequentiamo, pubblichiamo una perpetua pubblicità di una versione idealizzata della nostra vita – priva di aspetti negativi – e di ciò che essa fa e possiede. Siamo noi che ci mostriamo al mondo, e ci vendiamo a esso: un sistema tolemaico della fotografia. Il guardare la vita che accade davanti ai nostri occhi attraverso uno schermo – un minuscolo muro luminoso fra il nostro sguardo e la realtà – e l’impellenza di volerla registrare e condividere ci allontana emotivamente dal “qui e adesso”. Gli studi condotti dalla psicologa Linda Henkel della Fairfield University dimostrano che fare troppe fotografie indebolisce la memoria: questo perché deleghiamo alla nostra fotocamera il compito di ricordare, come una sorta di memoria esterna, pertanto ci sentiamo giustificati a non trattenere quelle informazioni. Guardiamo superficialmente qualcosa, sapendo che la fotografia ne ha registrato ogni minimo dettaglio. Se negli ultimi due secoli fare una fotografia era un modo per appropriarsi di un momento, di congelare un frammento di quell’incessante fiume che è il tempo – e di conservarlo, rendendolo eterno – ora sembra quasi un modo per liberarsene, per non vivere quel momento in quanto tale, bensì in quanto sua rappresentazione fotografica – già proiezione di una immediata condivisione in un mondo inconcreto e astratto. Le istantanee hanno preso il posto del ricordo da immortalare: ciò che abbiamo davanti è in primo luogo fotografia, e solo dopo vissuto. Scattare una fotografia è un gesto talmente consueto e abusato da divenire atto di routine, annacquandone il significato. Non più ricordi, ma documentazione del presente per il presente. La fotografia oggi è estemporanea: la si guarda, e si passa alla successiva. Italo Calvino, con arguta veggenza, già nel 1955 scriveva:
Il passo tra la realtà che viene fotografata in quanto ci appare bella e la realtà che ci appare bella in quanto è stata fotografata, è brevissimo […]. Basta che cominciate a dire di qualcosa: “Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo!” e già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può, e per fotografare quanto più si può bisogna: o vivere in modo quanto più fotografabile possibile, oppure considerare fotografabile ogni momento della propria vita. La prima via porta alla stupidità, la seconda alla pazzia.11
Se un fatto eclatante accade per strada abbiamo immediatamente decine di riprese che in brevissimo tempo verranno pubblicate in rete. L’immaterialità del prodotto (che consente di avere migliaia di immagini senza occuparci cassetti e schedari) e, soprattutto, la mancanza di un costo a tale pratica, non ci pone limiti a quanto e a cosa scattare. Ammettiamolo, se non fosse gratuito, non fotograferemmo i piatti che ci vengono serviti al ristorante, per quanto curati siano: il cosiddetto food porn, a livelli di massa, non può che esser figlio dell’era digitale. Se avessimo ancora trentasei pose disponibili e il costo del rullino sulle spalle, non faremmo dieci fotografie di una stessa scena, per poi vagliarle in un secondo momento: ci ragioneremmo sopra un attimo e ne faremmo magari due.
Con la moderna tecnologia, più che imparare a fare fotografie, è difficile imparare a non farne. L’avere una minuscola fotocamera sempre pronta in tasca (con una spintarella da parte della noia di certi momenti), può finire per farci credere tutti dei fotografi; ma non osserviamo, non studiamo l’operato altrui, che sia di giovani contemporanei o di grandi maestri della fotografia. Ci vengono proposte formule preimpostate dal nome di applicazioni creative (retaggio – spesso travisato – del linguaggio analogico), e barattiamo la vera creatività con stilemi di vana originalità. Com’è risaputo, l’ignoranza accresce la convinzione di essere creativi, e giustifica così la saturazione del già visto nell’etere cibernetico. Avere – senza merito – diritto a uno spazio personale in quella vetrina mondiale, può portare a un effetto Dunning-Kruger. Come David Schonauer ha fatto notare: “Un tempo era sufficiente chiedersi se la fotografia fosse arte; ora dobbiamo domandarci se quel confuso ammasso d’immagini sia fotografia.”12
Le fotografie sono miliardi, e non sono nemmeno uniche. Certamente, anche con l’analogico vi erano molte stampe, ma per quanto fossero milioni i poster di “Che” Guevara, erano una riproduzione consapevole, tracciabile in numeri di tirature e di matrici. Oggi chiunque può copiare digitalmente (sdoppiare e moltiplicare) una qualsiasi immagine trovata in rete. La struttura di linguaggi come Instagram, Facebook o Google Immagini, dove lo sviluppo di connessioni fra fotografie porta alla perdita del confine fra tuo e mio, all’assenza di didascalie e al continuo dialogo fra immagini differenti in una stessa gallery, può facilmente favorirne l’incomprensione, il fraintendimento e il riciclaggio per fini differenti.
Se a poca distanza dalla sua nascita la stampa fotografica possedeva una vastissima scelta tecnica (e essendo ancora molto legata alla pittura generava anche formati non convenzionali, come circolari e ovali), con l’avvento della produzione seriale industrializzata si aprì la strada verso una crescente semplificazione del mezzo espressivo che dura ancora oggi, e che indubbiamente con l’avvento del digitale non ha potuto che accentuarsi drasticamente. La forma digitale ha conformato ogni rappresentazione alla liscia luminosità di uno schermo. A forza di guardare tutto attraverso un monitor, ci siamo dimenticati di quella che è la nostra esperienza sensoriale: la matericità di una stampa, la dimensione, la texture e i toni di una carta. La standardizzazione del formato fotografico, già a pieno regime negli ultimi decenni del Novecento, abbandonato il supporto cartaceo è caduto in un dualismo digitale. Da un lato il crescere di una definizione sempre più elevata permette ingrandimenti di stampa spinti scongiurando la presenza molesta di pixel, dall’altro miliardi di scene vengono immortalate in formato ridotto, cinque per sette centimetri, spesso ignorando che se stampate a dimensioni maggiori le immagini saranno sgranate.
L’abolizione del processo fotochimico ha anche bruciato la tempistica fra lo scatto e la visione del risultato finale, visibile senza attese, modifiche dei contrasti, leggero aumento dello spazio ripreso, né difetti di parallasse. Non vi è più nessun processo mentale di pre-visualizzazione: quello che inquadriamo non è più la promessa di una fotografia, ma direttamente la fotografia, ancor prima di scattarla. Ciò implica un controllo totale, nessuna imprevedibilità, e, pertanto, nessuna espressione di qualsivoglia serendipità. Inoltre, visualizzare il risultato immediatamente ci permette anche di rimediare a eventuali errori tecnici o d’inquadratura scattando una seconda fotografia; ciò nel procedimento analogico corrisponde a uno spreco di fotogrammi, favorendo così una maggiore osservazione e attenzione in fase di ripresa. Se quella prima introduzione all’arte fotografica alla portata di tutti promossa da George Eastman nel 1888 ha fatto nascere le cosiddette “foto ricordo” (istantanee di famigliari la domenica allo zoo, al laghetto di città o al mare), ha anche piantato il seme della leggerezza, spostando l’importanza dalle scelte espressive al soggetto ritratto. L’inquadratura, il supporto di stampa e altri elementi cominciarono a divenire quasi “tecnicismi complicati e poco importanti” e la buona riuscita di una fotografia iniziò a dipendere da quanto il soggetto fosse “fotografico”. Da quel seme è nato un albero: una sequoia che oggi domina su tutto.
1 Susan Sontag, Sulla fotografia, Torino, Einaudi, 2016, p. 23.
2 Si trattava della prima macchina Kodak. Grazie al brevetto di un supporto fotosensibile su base cartacea – quindi flessibile e arrotolabile su bobine – depositato dal contadino inventore Peter Houston nel 1881, George Eastman, fondatore di quello che di lì a breve sarà l’impero Kodak, riuscirà a coronare il sogno di una fotocamera accessibile a ogni amatore.
3 L’opera menzionata si intitola 24 Hrs in Photos (dicembre 2011/gennaio 2012).
4 Le stime sul numero di stelle presenti nella nostra galassia si aggirano fra i cento e quattrocento miliardi di stelle.
5 Anno del lancio sul mercato della prima fotocamera digitale, la Sony Mavica: dotata di un floppy disk come supporto di memorizzazione, produceva immagini di 570×490 pixels.
6 I nostri nipoti rischieranno di ereditare milioni e milioni di dati in reti o hard disk illeggibili. Forse, come oggi, vi saranno metodi macchinosi per recuperare tali dati, ma le generazioni future ne avranno voglia visto che ne ignorano il contenuto? Voi, per esempio, impieghereste il vostro tempo per trovare un modo di recuperare pile di VHS non etichettate per poi magari scoprire che non contengono nulla di interessante?
7 Per un supporto più duraturo nel tempo, c’è chi ha pensato alle molecole di DNA, che in un sol grammo può contenere l’equivalente di tre milioni di CD, deteriorandosi – senza esser sottoposta a nessuna tecnica conservativa – nell’arco di cinquecento anni. Così, il Dottor Seth L. Shipman del Dipartimento di genetica della Harvard Medical School ha salvato un filmato nel DNA di un batterio vivente. Tramite un processo difensivo del batterio, chiamato CRISP, Shipman e colleghi hanno registrato e poi riletto una riduzione in pixel di una celebre sequenza di ventiquattro scatti che riproducono un cavallo in corsa, realizzata dal fotografo Eadweard Muybridge nel giugno 1878. Ma le ricerche sviluppate dall’Optoelectronics Research Centre dell’Università di Southampton sono andate perfino oltre; non tanto in quanto inventiva al limite con la fantascienza, piuttosto in termini di longevità e capienza. Si tratta di un piccolo disco in cristallo nanostrutturato che consente di ospitare fino a trecentosessanta TeraByte di dati, incisi in cinque dimensioni con un laser a impulsi ultra brevi. Il cristallo è termicamente stabile fino a 1000 gradi centigradi e può resistere 13,8 miliardi di anni a 190 gradi centigradi.
8 Un caso emblematico è quello del FSB (i servizi segreti della Federazione Russa) che nel 2013, in pieno caso Snowden, ha ricominciato a produrre documenti cartacei servendosi di vecchie macchine da scrivere elettriche. Oltre a ovviare l’obsolescenza dei metodi di archiviazione, trascrivere informazioni top secret in faldoni concreti, custoditi negli archivi del palazzo della Lubjanka, scongiura qualsivoglia tentativo di hackeraggio e cyberspionaggio: l’unica via per un trafugamento di dati è tramite una talpa all’interno degli uffici, operazione molto più difficoltosa.
9 Nel dicembre del 2013 la New Zealand’s Antarctic Heritage ha rinvenuto nei ghiacci dell’Antartico ventidue negativi in nitrato di cellulosa. La scatola che li conteneva era nel rifugio eretto da Robert Falcon Scott nel 1902 durante la fallita spedizione Discovery. Le fotografie ritraevano però una spedizione successiva, quella della nave Aurora durante la Ross Sea Party (1914-1917): un’altra esplorazione fallita nella quale alcuni membri dell’equipaggio furono costretti a rifugiarsi nella capanna di Scott dopo che la loro nave andò alla deriva durante una tempesta, abbandonandoli a terra.
10 “Nessuno morirà. Non è questo il credo della nuova cultura? Verranno tutti assorbiti dentro flussi d’informazioni.” Don DeLillo, Cosmopolis, Torino, Einaudi, 2003, p. 90.
11 11 Italo Calvino, “L’avventura di un fotografo”, in Gli amori difficili, Milano, Arnoldo Mondatori, 1990, p. 42.
12 David Schonauer, “The future without fear”, American Photo, maggio/giugno 1994, p. 20.