“…ma misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
piccola da la qual non fui diserto.”
Dante, La Divina Commedia, Inferno, XXVI, 100-102
Inventario di un uomo sulla strada sinuosa che ruba alla dinamica quotidiana il passaggio a un giardino interiore.
Ho capito questo: dell’importanza terapeutica di un colpo di pestello ben dato; dello scherzo alla perfezione in ogni sua tentazione; del cessare quieto dell’ansiosa attesa; dell’assenza di cose scontate.
Procedo mentre i miei occhi interrogano l’asfalto, ricercando in esso uno sbaglio di natura e noci di galla1, tra i vetri di una Becks. Rivolgo il mio sguardo verso l’alto nell’abbraccio silenzioso di un rugul2 fuori luogo. Questo mistero attraversa così il legame tra le cose, come se guardando il suolo sotto ai piedi trovassi la via per l’infinito.
Sussiste ancora sul limitare di una ferrovia un contrasto di natura, una manifestazione dialettica (come spesso accade) di realtà. Tra i binari e l’urgenza ansiogena del treno, nella sua metaforica identità di modernità, sussiste appunto un ramo grezzo di spinocervino3 che da sempre procede con la stessa cadenza. Mi interrogo su come avvenga il passaggio alla mia mano: quante cose sono dovute “essere” nell’universo perché siano mie le dita che adesso scostano le foglie dentellate dalle bacche mature di fine settembre nella bassa bergamasca. Il sole alla giusta distanza nel rispetto dell’asse inclinato della Terra sarebbe già sufficiente.
Passa il treno.
È un esercizio di confine, una supplica alle mie mani contro il primato della materia. Come quando avviene che la foglia d’oro, incollata a pieni polmoni, con paziente cura, abbandona il suo assembramento disordinato a favore di una trama gentile. Così dunque nell’andare delicato dell’agata, assisto, nel riflesso dorato, al passaggio intermittente del mio volto; quando la doratura è “sufficientemente buona”.
Quale merito avrei io, allora, se non la funzione di veicolare materia, di trasportare la metamorfosi, di ospitare per un breve tratto tra le mani la sua ricchezza in potenza, nell’attesa del suo compimento a forma piena.
Attraversato dunque dal passaggio di cose più grandi di me, sono già felice per un prato malachite4 che non screpoli, ma asciughi a sufficienza per passare alla pagina dopo.
Determino il moto cadenzato dei miei tratti sul pulsare roboante del cuore, armonizzando i battiti al pennello. È un esercizio di misura quando, a fine del giorno, risultano ben fatti pochi centimetri quadrati o quando scavare la conchiglia non porta a nuovo colore
Potrebbe essere un’ipotesi considerare il mentre come fine, contro il terrore contemporaneo di aver perso una quota di identità copiando forme da sempre fedeli a se stesse. Oppure considerare l’errore come una firma di sé. Potrei giustificare quel tremore improvviso della mano non come angoscia di compimento ma esigenza assetata di nuovo. Mi ritrovo nuovamente soffocare dai tralci rampicanti dell’iniziale caleidoscopica5 e, alla maniera romanica, lotto contro draghi che non mordono per conquistare il mio spazio. Poi passa la notte e questo andirivieni di forme, questa sintassi di colori, questo impasto di eleganza e miseria acquista, a suo modo, un equilibrio e l’iniziale è bell’è fatta. La sorpresa in grembo al giorno è il presentarsi nuovo di un tratto che mi appartiene, in un crossing over inconsapevole, nell’esatta copiatura delle proporzioni.
Ma non mi basta, no, passare la notte a recitare la buffa canzonatura dell’amanuense. Piuttosto è una rivincita, una rivalsa dello spirito, il riscatto povero della bellezza. È possibile quantificare quello che sento quando passo col mio sguardo la cintura di Orione e mi smarrisco nei fuochi a quattro puntini di Jacopo Balsemo6? È questo forse il mistero? O forse una via per attraversarlo? Non lo so, ma sorrido della noncuranza per occhi sconosciuti che incontrano le mie pagine e non vi fanno sosta. Passano oltre con umana indifferenza. Mentre per me è un groviglio di universi la campitura di un inutile giardino, un intimo ribollire di emozioni, una corsa a primavera a pieni polmoni.
Appoggio il mio sguardo al davanzale mentre un’anatra esercita il suo moto turbolento in funzione di una nuova migrazione e dispiega le sue ali al vento, rimescolando con le remiganti le correnti ascensionali. Scrive. Il fuoco scalpita ai miei piedi e l’aria acquista il sapore dolce del legno di Brasile.7 È la sensazione speciale di quando ogni cosa appare nella sua perfezione. Come se tutto fosse necessario: il pensiero che precede il lavoro, la coerenza interiore e l’azione tutta intera. Solo per avere occhi capaci di vedere. Vedere cosa? Un’anatra che vola nel cielo muovendo penne che si usano in scrittura nell’angolo cristallino di spazio e di tempo che odora dolce di perfezione.
Ripercorro a ritroso i miei passi, una possibilità quotidiana per me. Raccolgo tutto quello che ho prodotto, gli scarti e le cose da salvare. Ascolto i muscoli in tensione per le ore di lavoro, mentre gli occhi domandano una tregua. Mi accarezza il vento. Non so dire se abbia fatto bene, se sia ridotta la distanza dalla perfezione, se con coerenza abbia perseguito la mia azione nella brezza della sera o se ancora abbia difeso l’intento nobile della bellezza. Osservo il mio lavoro e metto a bilancio i colpi spesi a macinare, i passi prodotti nell’indagare foglie e bacche, i tratti sottili di martora8 contati uno ad uno. Sarà più pesante allora la mia anima nella psicostasi9 contemporanea dopo tutto questo? L’angelo spingerà il piatto dalla mia parte? E se non bastasse la rinuncia a me, al mio tempo, al mio vizio, al mio cuore? Potrà forse convincerlo la bellezza dei colori e della loro storia? Sarà la foglia d’oro e la forza dell’inchiostro di galla che penetra con aderenza nella pergamena? Sarà forse la gestalt10 improvvisa e inspiegabile sulla meraviglia del bifoglio aperto?
Urto con fare indelicato i miei limiti, accorgendomi ancora una volta di avere varcato le colonne d’Ercole in un canto d’Ulisse improprio e scritto a mano. Si annida in me la feroce preoccupazione di avere delegato alle cose un eccesso di conoscenza e il passaggio veloce alla verità. Non sono io il creatore. Il compasso che muovo sulla pergamena produce solo un cerchio artificiale. Capisco allora l’importanza di omettere la firma, di nascondere la propria mano, in una replica impersonale di lettere non mie, sperando possa essere sufficiente a non fare inghiottire la mia prua dai flutti di un mare ancora troppo grande.
Così, alla fine, guadagno la riva.
Epilogo
Lo scriptorium11 è una stanza ricavata da una vecchia presidenza di una scuola per preti. Ha in sé ancora ricordi tangibili del suo passato. Forse per svolgere questa funzione riceve poca luce. Guarda verso il Canto Alto che guarda la città e la chiude. Il corridoio all’esterno è un andirivieni di mondo in questi giorni. Al suo interno gli elementi appaiono come una tavola periodica in costante disordine e lottano per conquistare la mia attenzione e la fragile fetta di tempo rubata alle faccende del giorno. Credo abbia un certo spessore dinamico. Riposano le pelli già pronte e le penne in attesa. Poi i minerali e il resto per i colori da fabbricare. Non è facile entrare, c’è sempre una soglia psicologica da attraversare. Ma più difficile è uscire, non avendo oggi trovato ponti di continuità con l’asfalto che circonda l’edificio prima dei colli.
Fabbricare i colori richiede fedeltà e tempo. Bisogna dapprima accettare di perdersi nel dedalo dei mercatini e contrattare per un pestello di bronzo, per una manciata di minerali o condividere la segatura dalle parti di un liutaio gentile. È un modo per stringere amicizie, per costruire relazioni che nascono dalle cose, dal fare delle mani, dai tagli e dalle bruciature.
Poi si passa a macinare, scaldare e macinare di nuovo e quindi purificare.
Finalmente, affinate le armi, inizia il lavoro.
In primo luogo è il rigare la pagina con lo stilo12: una scelta iniziale da cui tutto diviene e che tutto sostiene; un prima fondativo, un’azione già identitaria. Poi è lo scrivere: confermo il definitivo con l’inchiostro ferrogallico13, attraverso penne così leggere da prendere il volo e forti da non farsi corrodere. È veicolo di sapere. In mezzo, prima del colore, la doratura. L’oro, come se ne fosse il sovrano, lotta quasi come un narciso per la sua definizione. Mi stupisco sempre di quando l’oro, levigato sull’assiso14, diventi lucido come uno specchio e garantisca una “riflessione”. Infine stendere i colori: i minerali prima (la malachite così spenta e semplice, la mia favorita…), poi i vegetali, leggeri a definire ombre e luci. A volte ci vogliono ore, a volte giorni. A volte si fa in modo di non terminare, a volte si conclude prima di eseguire.
Uscire dallo scriptorium è in genere un atto di violenza: chiudere la porta significa chiudere a fantasia e meraviglia, imbrigliare lo stupore, il primitivo, il pre-razionale; è un gesto feroce di un codice paterno eccessivo e fobico, un danno al femminile dell’essere, un ultimo attacco al canto sottile della bellezza.
Eppure quella porta, ogni giorno la chiudo. E me ne vado, verso casa, a sera, prima di compieta, passeggiando col mio segreto, sapendo nel mio intimo, del resto, di esser solo di passaggio.
di SIMONE ALGISI
1 Noce di Galla: escrescenza su piante a seguito della puntura di insetti; utile per la produzione di inchiostro.
2 Rugul: versione dialettale di rovere, cioè quercia.
3 Spinocervino (Rhamnus Cathartica) è una pianta arborea che produce bacche dalle quali si estrae un colorante verde (noto anche come verde vescica), fondamentale in miniatura per ombreggiare superfici di base costituite da malachite.
4 In miniatura la produzione dei colori richiede un bilanciamento di sostanze collose e ammorbidenti, per evitare che il colore secchi per eccesso di colla o non asciughi mai per eccesso di ammorbidente. La malachite è un minerale da cui si produce il pigmento verde.
5 Iniziale descritta da Otto Pächt, tipica dell’epoca romanica.
6 Miniaturista attivo a Bergamo nell’ultimo quarto del Quattrocento. Titolare della principale bottega della città, fu autore di numerosi corali e antifonari per la MIA oltre che di documenti per il comune di Bergamo.
7 Il legno rosso di Brasile era utilizzato in miniatura per la produzione di una celeberrima lacca rosa; corrisponde all’albero di Pernambuco.
8 Nella miniatura le ombre vengono poste sul colore di base attraverso sottilissimi tratti di pennello di pelo animale.
9 Psicostasi o psicostasia: giudizio assegnato dalla divinità all’anima dopo averla pesata.
10 Gestalt: in psicologia è la percezione che si presenta all’esperienza come un tutto unico, come una struttura definitiva; questo è spesso l’impatto visivo e sensoriale che colpisce l’osservatore di fronte a un manoscritto aperto.
11 Scriptorium: si intende lo spazio di lavoro dell’autore a Ponteranica (Bergamo).
12 Lo stilo di piombo è una punta metallica usata per rigare la pagina e per impostare il disegno.
13 Inchiostro antico particolarmente resistente ottenuto attraverso una laboriosa ricetta a base di galle e solfato di ferro.
14 Nella miniatura è la base su cui si incolla la foglia d’oro, in genere formato da gesso, biacca, colla di pesce, zucchero e bolo.