Il vuoto delle possibilità. Il vuoto come fonte continua d’immaginazione

Domenico Pievani, artista visivo | 

Voglio affrontare questo tema attraverso un approccio empirico sviluppando una serie di riflessioni a partire dall’esperienza legata al mio lavoro artistico e rifacendomi alla techne: ciò che conosco tramite esperienza. Considero queste riflessioni un materiale aperto che mantiene anche nella sua esposizione affermativa una propensione all’interrogazione, in cui le affermazioni stesse possano farsi nuovamente domanda.

 

Dialettica del vuoto

Il vuoto è dialettico. Si dice dialettico ogni orientamento o motivo spirituale che valga a definire l’essenza della realtà in una perpetua opposizione creatrice. Nell’esperienza della creazione artistica il vuoto è sempre dialettico. Non si presenta mai come un assoluto o come condizione metafisica, piuttosto, in prima istanza, riguarda una realtà empirica. Questo non toglie che possa implicare anche una condizione metafisica, ma mi propongo di mettere in evidenza la sua qualità empirica nel senso di ciò di cui si può fare esperienza. In questo mi aiuta il fatto di pensare, come diceva Martin Heidegger a proposito dello spazio, che finché non si sperimenta ciò che è proprio del vuoto, anche il discorso attorno al vuoto rimarrà una questione oscura.

Quando si considera il vuoto all’interno di questa prospettiva, ovvero di ciò di cui si fa esperienza, non si parla di un’assenza in generale, ma di un vuoto rispetto a qualcosa, di qualcosa che non c’è rispetto a qualcosa che c’è. In altre parole, diremmo nel senso di “ciò che in qualcosa non c’è”. Un vuoto quindi non astratto o in generale, ma un vuoto rispetto a una data cosa. Il vuoto è immediatamente dialettico rispetto al pieno e i due sono interdipendenti: nelle possibilità dell’azione creatrice sono continuamente in relazione, sono appunto l’essenza della realtà in una perpetua opposizione creatrice.

Naturalmente, per cogliere questa qualità del vuoto, si deve fare uno sforzo per uscire dal significato che correntemente nel pensiero occidentale viene dato a questo concetto. Bisogna uscire dal suo significato privativo che induce a considerare il vuoto come una mancanza, una condizione per cui viene meno il contenuto. In questo, ci viene in sostegno il concetto di vuoto prossimo alla cultura orientale, in particolar modo alla cultura cinese e giapponese. La parola vuoto in giapponese si esprime con tre diversi ideogrammi: Kyo, Ku e Mu.

Kyo, o Ko in origine significava ‘grande collina’ nel senso dello ‘spazio aperto’, ‘non limitato’, [mentre] con il tempo ha acquisito il significato di ‘spazio vuoto’”.1 Ku originariamente significava ‘grotta’, cioè ‘luogo nel quale si abitava’, lo ‘spazio vuoto limitato’, ‘racchiuso’.”2 Il segno Mu può essere interpretato come una balla di fieno con sotto un fuoco e indica ciò che rimane: nulla. Oppure come la rappresentazione di un uomo dalle lunghe maniche decorate mentre balla.3

Per superare la concezione di vuoto come condizione privativa, è forse utile portare l‘attenzione sul concetto di silenzio, perché questo concetto permette di avvicinare e comprendere il vuoto nelle sue caratteristiche. “Se facciamo oscillare la nostra esperienza tra il concetto di vuoto e quella di silenzio, ecco che il vuoto non è più negativo”.4 “Il silenzio evoca una sensazione di pace, di quiete, serenità e non pensiero, non affastellamento, di rumori o [d]i concetti”.5

Perché il vuoto si faccia sentire ci vuole il silenzio. Possiamo così stabilire una stretta relazione tra vuoto e silenzio. Al contrario di quello che si può pensare, il vuoto non è una mancanza, essendo il luogo dove le cose si originano e attraverso il quale si originano le cose. Quindi, si può affermare che il vuoto tutto contiene. Apparentemente si entra così in contraddizione e ci si potrebbe chiedere perché il vuoto non sia pieno, ma il vuoto contiene il tutto al principio come possibilità, come intenzione. Il vuoto permette che le cose si generino. Noi, come le cose, viviamo attraverso il vuoto e grazie al vuoto che ci accoglie. Il vuoto è generatore nelle sue possibilità, ma nello stesso tempo è anche relazione in quanto permette la relazione.

 

Sospensione

Ora cercherò di evidenziare, per quanto mi è possibile, come concepisco questa realtà del vuoto in relazione al processo creativo. Nel vuoto partecipa una duplice condizione: quella di permettere e rendere possibile l’accadimento e quella di essere una parte integrante dell’accadimento stesso. Il vuoto è relazione. Lo spazio vuoto che intercorre tra una cosa e l’altra e dove il vuoto ha la natura di una sospensione è ciò che permette la relazione.

In questo caso la sospensione è di natura diversa dalla separazione. La sospensione è l’intervallo, la pausa. L’intervallo lega e collega e quindi è un vuoto-forma che si genera dal processo creativo, fa parte del processo assumendo una qualità semantica. Una pausa all’interno del processo che si fa segno e concorre alla composizione dell’insieme, permette il dialogo tra le parti. Si potrebbe pensare che la sospensione all’interno di un processo si qualifichi come un’interruzione dello stesso, mentre la sospensione può essere parte integrante del processo medesimo. Ne è una sua qualità se si mantiene all’interno della possibilità di relazione là dove la sospensione stessa è/diviene elemento che provoca la relazione. Tutto questo si può sperimentare all’interno di un atto di creazione attraverso l’atto del comporre, del disporre, dell’accordare nelle sue differenti declinazioni.

Si potrebbe dire che all’interno di un’opera d’arte la sospensione si fa segno e assume una valenza semantica, genera il carattere, ne determina la qualità. Al contrario, l’interruzione del processo avviene solo là dove si opera una frattura, una mancanza di relazione. Ma le possibilità del vuoto non si esauriscono nel suo essere “segno” perché il vuoto come forma di sospensione e elemento di relazione è diverso dal vuoto generatore. Il vuoto non è solo una pausa, non partecipa solo al processo creativo che genera la forma, ma genera il processo stesso. Il vuoto è là dove il processo si genera.

Si potrebbe dire che il vuoto non genera il processo, ma rende possibile che il processo si generi. Quindi il vuoto è là dove le cose si rendono possibili, là dove è possibile l’accadimento. Si ha quindi una duplice possibilità: lo spazio vuoto come generatore-partecipe della forma e lo spazio vuoto come luogo in cui è possibile che la forma si generi. Se la forma è generata dal vuoto, ciò che non c’è è indispensabile per ciò che c’è: si è così davanti a un apparente paradosso.

 

Fare e lasciare spazio

Per quanto riguarda le arti, dopo aver considerato il vuoto come dialettico rispetto al pieno, si può considerare la stessa dialetticità nella categoria dello spazio con cui è in stretta relazione; non intendendo lo spazio quale si presenta nel “progetto tecnico-scientifico”, ma lo spazio nella sua caratterizzazione che riguarda l’Arte e che Heidegger chiama “fare – e lasciare – spazio”.6

Anche lo spazio vuoto ha una funzione dinamica e una funzione dialettica, perciò lo spazio vuoto si dà solo in rapporto allo spazio pieno e viceversa. Uno spazio vuoto è lo spazio delle possibilità, dell’inizio, è lo spazio all’interno del quale tutte le arti possono prendere la loro forma secondo la propria natura. In questo caso con “spazio vuoto” si fa riferimento in particolar modo allo spazio tridimensionale, ma anche allo spazio bidimensionale come superficie, come campo, come pagina bianca e allo spazio-tempo musicale. Lo spazio è vuoto sempre a partire da qualcosa, non è vuoto in astratto.

Lo spazio è vuoto in quanto ha la possibilità di dialettizzarsi con un limite e in quanto percepito attraverso questo limite. Il primo limite con cui lo spazio si dialettizza è il nostro corpo, di cui lo spazio ne è estensione. Facciamo esperienza e percepiamo lo spazio che diventa estensione del corpo, attraverso il corpo stesso. Non possiamo fare veramente esperienza dello spazio che ci accoglie se non attraverso l’accadere nello spazio, attraverso il corpo e i sensi in vigile consapevolezza in quanto corpo vivente, ma non siamo un corpo nello spazio.

Lo spazio di cui facciamo esperienza è sempre a partire dal nostro corpo, dal nostro esserci. Il corpo non è un oggetto nello spazio ma, per il fatto di essere vivo, intendendo come dice Heidegger “vivere-come-corpo” come “soggiorno nel mondo”, è un atto, è un continuo accadere nello spazio. Quindi lo spazio come il vuoto è un continuo farsi e disfarsi, è impermanente, è in continua trasformazione. Il vuoto è contenuto dallo spazio attraverso una circoscrizione che si fa limite. Come lo spazio è dato a partire dal nostro corpo, anche il vuoto è tale a partire dal corpo, dal nostro esserci, dall’essere in un coappartenersi. Noi disponiamo dello spazio, abbiamo la possibilità di fare spazio e di fare vuoto, lo spazio fa spazio e il vuoto fa vuoto.

Come non esiste il vuoto senza il pieno così non esiste il vuoto senza spazio, sono complementari, non esiste prima l’uno o l’altro. Facciamo parte sia dello spazio che del vuoto. Lo spazio e il vuoto ci appartengono e viceversa noi gli apparteniamo. Possiamo quindi disporre – porre in essere – di questo spazio e di questo vuoto e da questo spazio-vuoto accade l’atto di creazione. Ciò che sa fare un’artista è dare e fare spazio, dare e fare vuoto.

 

L’inizio

Lo spazio vuoto si dialettizza rispetto alla forma come spazio esterno, quindi come il vuoto che contiene l’opera, o interno alla forma come spazio racchiuso nell’opera, come cavità, come pausa, come intervallo, oppure come lo spazio che intercorre tra un soggetto e l’opera.

Ci si può chiedere se queste siano le sole possibili manifestazioni dinamiche dello spazio che hanno luogo in quanto il vuoto è in sé generatore della forma, sostanzia la forma nel suo accadere. Ma se si considera che lo spazio vuoto sia innanzitutto lo spazio che rende possibile la forma e il suo manifestarsi, allora, il vuoto è anche là dove si trova l’inizio, dove si trova l’archè. Partendo da questo presupposto, perché l’atto di creazione sia reso possibile, è necessario fare il vuoto e installarsi nel vuoto dove è possibile l’accadere dell’archè, intesa in questo caso come il principio di ogni accadimento che rende possibile l’apparire delle cose. Archè come inizio.

Nell’Hridaya Sutra si trova scritto: “La forma è vuoto, e il vuoto non è che la forma”. Dal vuoto si origina la forma e questa riposa sul vuoto: “O Sariputra, la forma è il vuoto e proprio il vuoto è la forma”.7 “[I]l vuoto quindi come precondizione della forma ma anche come elemento costitutivo della forma”.8

 

Ciò che lega e collega

La parola archè si pensa possa trarre origine da Cav e da Ar. Cav significa cavo. Uno spazio racchiuso, che può corrispondere al Ku giapponese. Per comprendere ciò può essere d’aiuto l’esempio del vaso.

Il vuoto del vaso, infatti, non è semplicemente la sua parte interna o lo spazio vuoto che lo circonda, ma è ciò che lo fa essere vaso, ciò che rende funzionale la sua “argilla”, ossia il suo pieno.9

In questo caso, il vuoto all’interno e il vuoto che lo circonda non è qualcosa che rientra solo nello spazio tecnico fisico, quindi soggetto alle varie misurazioni, ma diviene generativo. Ar significa connettere, accordare, nodo, che può corrispondere al Ma giapponese, uno spazio tra una cosa e l’altra, ciò che lega e collega. La parola ars (arte) in latino presenta la medesima radice ar: “La radice *ar- risale al verbo greco ararískō, ‘connettere/accordare’.”10 Archè in greco significa inizio. Attraverso il vuoto le cose si generano e attraverso il vuoto si accordano e si connettono le une con le altre. Quindi anche in questo caso non si può sentire il vuoto come una mancanza, ma come lo spazio delle possibilità.

All’interno del processo creativo una cosa importante è fare il vuoto, fare spazio, confrontarsi con lo spazio vuoto. È dal silenzio e dallo spazio vuoto che sorgono le cose. Noi ci muoviamo continuamente nel vuoto, nel cavo che ci contiene, siamo anche generati nel cavo che ci accoglie. Se si pone un solo oggetto all’interno di uno spazio vuoto, allo sguardo assume l’effetto di una scelta, si carica di evidenza.

Il vuoto che si fa silenzio permette a ogni cosa di manifestarsi nella sua intima natura e ci rende possibile coglierla non all’interno della sua realtà abitudinaria, ma nella sua dimensione/espressione reale. Mi sento di dire che in questo caso lo spazio vuoto assume le caratteristiche dell’aperto, ciò che Heidegger indica come “la libera vastità”, in cui grazie ad essa “l’aperto è posto in condizione di lasciare sorgere ogni cosa nel suo riposare in se stessa”.11 Nell’atto di creazione si può partire dall’aperto e creare questo aperto. Quindi il vuoto e il silenzio permettono alle cose di presentarsi, riposando in se stesse, di stare nel loro principio di realtà, assumendo la qualità dell’evidenza.

 

Accadimento

Nel principio è lo spazio vuoto che permette l’accadimento, perché qualcosa possa accadere serve uno spazio vuoto e il silenzio generato dal vuoto. Direi che ogni vuoto genera il suo silenzio affinché questo sia rotto dall’archè nel suo generarsi come accadimento.

Si dice che nel principio era il vuoto, il nulla, ma io direi che il principio sta nel vuoto e perché questo principio sorga e si manifesti come forma deve staccarsi dal vuoto, attraverso il vuoto stesso. Oppure, il principio si può manifestare solo se si stacca dal vuoto: prima è il vuoto e il principio che è in esso si stacca per prendere forma divenendo forma nel vuoto, facendosi sostanza quindi diventando elemento dialettico del vuoto. Il vuoto contiene il principio, è ciò che permette al principio di ingenerarsi (nascere, generare) e inverarsi (farsi vita, realtà, concretezza). Il vuoto diventa significante di per sé. Il vuoto è la condizione sine qua non perché possa esserci l’accadimento.

Com’è stato già considerato, l’accadere non avviene perché il vuoto è il soggetto motore dell’accadimento, ma avviene nel vuoto in quanto condizione indispensabile perché possa accadere. Per accadere intendo ciò che avviene nello spazio e nel tempo. Quando si entra in una stanza, si percepisce il vuoto e si può pensare il vuoto perché qualcosa è già accaduto: è accaduta l’architettura. Quando ci si approccia ai margini di una radura e si percepisce il vuoto fino al suo confine con il bosco, è possibile farlo perché qualcosa è già accaduto: è il bosco che è accaduto e nell’atto del percepire è accaduta la radura. Allo stesso tempo il vuoto non è tale senza l’accadimento. Si prende coscienza del vuoto solo attraverso un accadimento. Lo stesso stare è già un accadimento.

Il vuoto stesso è parte dell’accadimento. Vuoto e pieno come elementi entrambi costitutivi. Il vuoto non è da vedere né come oggetto né come agente, non è il vuoto che genera, ma è dal vuoto che si genera. Quello che si mette in forma è il vuoto, si dà forma al vuoto-forma nell’accadimento dell’atto creativo. Ora, in termini spaziali, si può parlare ad esempio della stanza, del recinto o dell’aperto e della radura. Nel suo essere spazio, lo spazio accade e si origina dal vuoto. Forse noi, in quanto forma e sostanza, stiamo sempre all’interno del vuoto.

 

Attraversamento

Oltre allo spazio vuoto che contiene la forma, lo spazio vuoto esistenziale, abbiamo lo spazio vuoto come possibilità dinamica. Lo spazio che ci permette il passaggio, lo spazio che occupiamo con il nostro stare, lo spazio che possiamo percorrere, attraversare, all’interno del quale possiamo essere in movimento. I quattro modi di stare nello spazio propri dell’uomo sono: sdraiati, occupando lo spazio in orizzontale; seduti o inginocchiati, o accucciati, come posizione intermedia tra l’orizzontale e la verticale; in piedi, occupando lo spazio in verticale; deambulando, in movimento all’interno dello spazio.

Perché tutto questo possa avvenire è sempre necessario il vuoto come elemento dialettico dello spazio e come elemento dialettico al pieno legato al nostro essere forma, alla nostra fisicità e al nostro corpo. Lo spazio vuoto è là dove tutti i nostri sensi possono essere allo stato iniziale in potenza e dove abbiamo la possibilità di riposare in noi stessi come le cose, ma diversamente dalle cose, in quanto viventi, quindi in movimento e in trasformazione. Lo spazio vuoto è il luogo del silenzio, il luogo delle concatenazioni, delle costellazioni, degli accadimenti. Concatenazioni a ritmo alternato, continuo, armonico, intermittente, disarmonico, dissonante, assonante, con pause, intervalli, misure, distanze.

 

Distanza/Ma

Ma è un termine giapponese estremamente fluido, per certi versi inafferrabile.

Il suo significato è molto aperto, […] indica lo spazio vuoto tra due oggetti, il silenzio tra due suoni, l’intervallo tra due gesti. Si riferisce al vuoto con una connotazione positiva come tensione incantata di sospensione spaziale e temporale.12

Il filosofo francese Jacques Derrida parla della somiglianza tra il suo concetto di chora13 e il concetto giapponese di Ma nella loro capacità di descrivere ciò che non può essere descritto. Derrida definisce chora: “‘non è come niente’, un intervallo, né logos né mito, né essere né non essere, né sensibile né intellegibile, né presente né assente, né passivo né attivo. Chora riceve tutto ma non diventa niente. È lo spazio tra qui e là che resta per sempre una fonte di immaginazione.”14 Possiamo quindi fare esperienza dello spazio vuoto e del vuoto tout-court come fonte continua di immaginazione. La distanza tra una cosa e l’altra è importante per determinare la relazione delle cose all’interno di uno spazio. Il vuoto tra le cose come intervallo, interstizio, varco.

“Lo spazio tra le cose è altrettanto importante che le cose stesse.”15 Vi è una distanza che separa e una distanza che lega e collega. Vi è una distanza che permette una fruizione solo dall’esterno, dove è soprattutto la vista che può passare attraverso, ma vi è una distanza che permette al nostro corpo in movimento di passare attraverso, percezione in movimento. Ci sono due categorie del vuoto di cui si può fare esperienza: un vuoto esterno alla forma o al campo della visione e un vuoto interno.

La coscienza del vuoto e del suo essere indispensabile al processo di creazione può permettere di riconsiderare e ristabilire la giusta distanza. La distanza che si fa prossimità genera e rende possibile la relazione. Quella distanza che Walter Benjamin chiamava “naturale” e di cui vedeva la fine nell’arte. È necessario esercitare la giusta distanza.

 

Tra

Se noi prendiamo parte con il nostro corpo del vuoto che si trova tra una cosa e l’altra, il nostro corpo diviene elemento dialettico e muove lo spazio, collocandosi non più all’esterno della forma, ma tra. “Tra” induce a fare esperienza della pausa, dello spazio intermedio, rende possibile lo stare tra una cosa e l’altra senza che la relazione venga meno e facendoci parte del loro coappartenersi.

“Tra” significa “‘in mezzo’, ‘entro’, e come prefisso indica un’azione che va ‘oltre’, ‘al di là’”.16 Ma “tra” è anche ciò che ci proietta nel vuoto di un altrove sia spaziale che temporale, rendendoci partecipi di questo altrove come qualcosa non ancora alla nostra portata ma inscritto nel processo del divenire. Questo è quanto avviene per esempio nel santuario scintoista, che è costituito nel suo insieme dal recinto con tutti i suoi elementi e in compresenza dal recinto vuoto posto lì accanto che aspetta e che si fa centro di una vacuità dormiente.

“Tra simboleggia questa fonte vuota di trasformazione infinita, un varco verso gli spazi fuori dal controllo degli uomini, che sono sempre alla ricerca di ciò che resta fuori dalla loro portata”.17 Attraverso il vuoto, non attraverso il pieno. Mi colloco nel vuoto. Non mi colloco nel pieno se non creandomi del vuoto, almeno tanto quanto mi serve per essere contenuto, accolto.

 

Farsi vuoto

Si può sperimentare il vuoto nella solitudine e nel silenzio. Il vuoto scorre, è fluido, si fa e si disfa per tornare a rifarsi vuoto, il vuoto non è dato per sempre. Per essere generante quale è, il vuoto deve essere fluido, in movimento, farsi e disfarsi, puro processo in continuo rinnovamento. Bisogna farsi vuoto per partecipare, per essere parte di questo processo, per rinnovarsi.

L’attenzione va posta sullo spazio dove vive il soggetto e non solo sul soggetto, come se questo potesse vivere indipendentemente sia dallo spazio che dal vuoto che lo contiene. Si può così comprendere che ci troviamo sempre a fare esperienza di un’esistenza non separata. Il soggetto concepito, sentito come un pieno, è determinato dal suo vuoto, senza il quale il pieno non troverebbe modo di essere. Il vuoto è azione. Il vaso è “il risultato dello svuotamento o la premessa di un riempimento.”18

Qual è il processo che è alla base di un’azione, non è forse lo svuotamento? La forza del pieno è inversamente proporzionale alla qualità del vuoto. Il vuoto come spazio della trasformazione. Lo scopo non sta nel prodotto, ma nell’atto.

Il vuoto non esprime, fa esistere.

 


1 Marco Filippucci, “L’esperienza del vuoto nell’architettura giapponese”, in Fabio Bianconi, Marco Filippucci, Paolo Verducci (a cura di), Architetture dal Giappone: disegno, progetto, tecnica, Roma, Gangemi Editore, 2006, p. 272.
2 Ibidem
3 Si veda M. Filippucci, “L’esperienza del vuoto nell’architettura giapponese”, cit., pp. 266-299.
4 Gian Carlo Calza, Stile Giapponese, Torino, Einaudi, 2002, p. 92.
5 Ibidem
6 Martin Heidegger, L’arte e lo spazio, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2008, p. 23.
7 “Prajñãpāramitāhrdayasūtra”, in Rossella Marangoni, Zen, Milano, Editrice Bibliografica, 2019, p. 54.
8 R. Marangoni, op. cit., p. 54.
9 Giangiorgio Pasqualotto, Estetica del vuoto, Venezia, Marsilio, 1992, p. 9.
10 Giorgio Ferronato, “I volti dell’Armonia”, Il Chiasmo, 17 ottobre 2018 <http://www.treccani.it/magazine/chiasmo/lettere_e_arti/Armonia/armonia_metamorfosi_parola_armonia.html?fbclid=IwAR2301PNBl2aBRQmc03qTJUV3gVhjxn0S1kXV0jdLjD9wAVJfk-1RJTZ_sU> [ultimo accesso 10 gennaio 2020].
11 M. Heidegger, op. cit., p. 6.
12 Francesco Poli, “Art tra”, in Axel Vervoordt (a cura di), TRA. Edge of Becoming, Wijnegem, Vervoordt Foundation, 2011, p. 34.
13 Per maggiori aprofondimenti si vedano Jacques Derrida, Il segreto del nome, Milano, Jaka Book, 1997 e “Chōra”, in Jacques Derrida, Salvo il nome, Milano, Jaka Book, 1993, pp. 45-86.
14 Jacques Derrida in Tatsuro Miki, “Dov’è tra”, in A. Vervoordt (a cura di), cit., p. 64.
15 F. Poli, “Art tra”, cit., p. 34.
16 Ivi, p. 33.
17 T. Miki, “Dov’è tra”, cit., p. 65.
18 G. Pasqualotto, op. cit., p. 16.

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