Clelia Bettini
Parlare di viaggio e letteratura è quasi parlare della stessa cosa. Sono due facce della stessa medaglia, due metafore della vita umana e entrambe alimento necessario di questa. L’isola di Itaca, spiega il poeta greco Konstantinos Kavafis, non è importante in sé, ma perché fa compiere al nostalgico navigante il periplo che là lo riconduce. Nel corso del viaggio sarà spinto a indugiare in porti fenici dove acquisterà merci meravigliose e molti saranno i mattini d’estate che trascorrerà a riposare a terra, fino a quando la vita non lo condurrà all’ultimo e definitivo scalo. La letteratura può essere vista come necessario complemento alla vita, contribuendo a quell’indugio a cui invita Kavafis, rende ricco l’itinerario da compiere. Basta pensare alla potenza della narrativa di Emilio Salgari, che descrisse alla perfezione l’India e la Malesia di fine Ottocento senza mai essersi mosso da Torino, dove morì, in miseria, poco più di un secolo fa: Salgari compì indubbiamente dei viaggi con la sua immaginazione e altrettanti ne fece compiere a chi si appassionò a quelle avventure così esotiche, eppure così esatte nel ritrarre realtà sconosciute alla maggioranza dei lettori occidentali.
L’atto della scrittura, così come quello della lettura, possono dunque corrispondere a quello del viaggio, anche se alla base di essi non c’è nessun reale spostamento nello spazio e nel tempo. In maniera speculare, quando davvero si compie un viaggio, spesso si sente la necessità di tradurre ciò di cui si fa esperienza in pensiero dotato di senso, codificandolo attraverso un particolare tipo di linguaggio: ne sono esempio, certo, le migliaia di fotografie che ormai gran parte della popolazione mondiale scatta, i registri audio e video e, non ultima, l’elaborazione verbale dell’esperienza. Ancora oggi il discorso letterario si rivela un prezioso composto di catene di parole che è di fatto una concretizzazione percepibile di quel linguaggio che l’esperienza del viaggio fa scaturire nell’anima del viaggiatore, sia esso reale o immaginato.
La parola “viaggio” (fran. voyage, cast. viaje, cat. viatge, gal. viaxe, port. viagem) ha la stessa origine della parola “viatico”, ovvero il latino viaticum, termine che significava tutto quello che riguardava l’atto di mettersi in cammino. In particolare, le provviste che il viaggiatore portava con sé, come chiarisce il significato cristiano del termine “viatico”, l’ultima comunione che accompagna il credente nel viaggio fino all’aldilà. E questo complemento necessario alla sua sopravvivenza è così importante per il viaggiatore da dare origine ai diversi termini romanzi che indicano l’atto stesso di viaggiare. Secondo questa prospettiva, la letteratura può essere considerata “viaggio” e “viatico” allo stesso tempo: essa contiene in sé i molti viaggi che il lettore può portare con sé, attraverso il lungo periplo che lo condurrà all’Itaca di Kavafis. Fra questi infiniti itinerari possibili, già compiuti o ancora da compiere, si può selezionarne una particolare tipologia: il viaggio che si compie entro le mura letterarie di una città. In base a questo criterio è possibile tracciare un itinerario che unisca idealmente opere e autori particolarmente rilevanti per riflettere sulla natura stessa della letteratura, sulla sua funzione e la sua importanza.
Se si considera la letteratura come “viaggio” e come “viatico”, appare chiaro che Angelo Maria Ripellino si è messo in cammino centinaia di volte nell’arco della sua vita di poeta e di studioso di culture e letterature slave. La sua prima raccolta di saggi porta il titolo significativo di Letteratura come itinerario nel meraviglioso. Vi descrive un viaggio all’interno della dimensione che Ripellino sentiva come più intrinseca alla letteratura, quella dei mirabilia, “le cose degne d’essere ammirate”.1 Ripellino si è sempre considerato un “fuoriuscito”, qualcuno che non si trova mai nel luogo giusto al momento giusto, costretto a un’evasione perpetua: un altro suo volume di saggi, dedicati alla letteratura russa e pubblicato postumo, s’intitola proprio L’arte della fuga.2
Poeta espunto dal coro dei vati di professione, studioso mal tollerato dai periti della critica, fervente devoto della fantasia e della meraviglia, Ripellino ha lasciato nel suo pellegrinare per questo mondo un inestimabile tesoro per tutti i “picari” della letteratura. Il risultato compiuto delle sue numerose “escursioni” per le fredde lande e le numerose lingue dell’Europa centro-orientale, si è depositato in un volume interamente dedicato alla città di Praga. Praga magica è un lungo viaggio composto di una miriade di altri viaggi che si snodano attraverso le strade letterarie della capitale boema.3 È un saggio di critica, dedicato ai molti scrittori di cui si occupa che a Praga e di Praga hanno scritto, una specie di guida turistica per chi ama andare oltre i cliché da Baedeker, ma soprattutto una narrativa da leggersi in chiave poetica. La magia – ovvero tutto quanto va oltre la ragione sensibile – ha un ruolo chiave nel modo in cui Ripellino avvicina i suoi lettori a quel che vuole raccontare. Si capisce fin dall’apertura del libro, quando afferma con naturalezza che “ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka, ritorna in via Celetná (Zeltnergasse) a casa sua, con bombetta, vestito di nero.”4
Nel 1973 Ripellino descrive una Praga contemporaneamente abitata dagli alchimisti della corte di Rodolfo II e dagli espressionisti praghesi, il selciato secolare delle sue strade risuona sotto i passi dell’autore del Processo e quelli di Apollinaire, le sue birrerie sono frequentate da masnade di mercenari seicenteschi e da un tristo Bohumil Hrabal, percosso dal freddo grigiore di un regime oppressivo che nel 1968 ha decretato la censura totale delle sue opere. Il meraviglioso affresco dipinto in Praga magica è la prova che le città, come la letteratura, non potrebbero esistere se non come risultato della fusione delle più disparate componenti. La “contaminazione” è motore di creazione e di pensiero: non è un caso che sia così temuta dalle correnti filosofiche e politiche più autoritarie, figlie di quei nazionalismi che hanno condotto il genere umano fino all’orrore tutto novecentesco del genocidio armeno, dei campi di sterminio nazisti, dei gulag di Stalin o alla strage di Srebrenica. La “contaminazione” appartiene all’area semantica del “toccare”, mettersi “in contatto”. Siamo davanti alla medesima porzione di lingua che ha dato origine alla parola “contagio”: dunque contaminarsi, contagiarsi, significa in origine toccarsi, mescolarsi, sovrapporsi. Tutte azioni che sono caratteristiche dell’esperienza del viaggio, almeno quando intesa nel suo senso più profondo. A questo proposito, scrive Ripellino che
il sortilegio di Praga scaturiva in gran parte dalla sua indole di città dei tre popoli (Dreivölkerstadt): il ceco, il tedesco, l’ebraico. La mescolanza e l’attrito di tre culture davano alla capitale boema un particolare carattere, una straordinaria dovizia di risorse e di impulsi.5
Ripellino parla qui di una “contaminazione” non scevra di urti e chiarisce subito dopo come quella dei drei Völker non sia mai stata una convivenza idillica: in seno all’impero austro-ungarico, le differenze sociali erano assai marcate e la minoranza di lingua tedesca aveva privilegi da cui la maggioranza slava si vedeva esclusa. Tuttavia la “contaminazione” da cui la Praga letteraria trae, secondo Ripellino, la sua forza vitale, si mostrava evidente principalmente sul piano linguistico:
Nonostante i dissidi e l’arroccarsi degli uni e degli altri su posizioni contrarie, le varie componenti si compenetravano. La lingua ceca formicolava di locuzioni tedesche, e del resto, malgrado le smorfie dei cornacchioni puristici, sarà sempre valido il detto del poeta František Gellner: “spesso un buon germanismo è oramai più ceco di una frase antica”. Ma il Prager Deutsch a sua volta, “papierenes Buch-deutsch”, abbondava di boemismi. Esistevano anche un Kleinseitner Deutsch (tedesco della Kleinseite, ossia Malá Strana), sul quale Kisch ha imbastito spassevoli pagine e un goffissimo maccheronico ceco-tedesco da pavlaC e da cucina, e una variante praghese dello jiddisch, il Mauscheldeutsch. Questa babele linguistica, questa attiguità di elementi discordi nell’ambito dell’impero absburgico, immenso calderone etnico, aguzzava gli ingegni, serviva di prodigioso incentivo alla fantasia e alla creazione. […] Tutto ciò favorì la mirabile fioritura di poeti, di artisti, di pensatori praghesi nell’età del tramonto della monarchia.6
La “contaminazione” linguistica riflette da un lato il mescolarsi delle idee e delle esperienze, dall’altro una tensione continua di un gruppo verso l’altro, una forza magnetica dallo straordinario potere creativo. Tuttavia, determina anche il senso di alienazione e isolamento, simile a quello sperimentato dagli abitanti di una piccola isola, che pervade la letteratura in lingua tedesca di Praga o, per meglio dire, la letteratura ebraico-tedesca, giacché la comunità ebraica praghese costituiva grande parte della popolazione germanofona della capitale boema.
In merito a questo movimento di approssimazione e allontanamento delle due comunità, Ripellino ricorda l’esempio dei continui tentativi dell’Agrimensore K. di essere ammesso al Castello dove è stato ufficialmente convocato. I suoi sforzi per essere trattato come un cittadino eguale agli altri si traducono in una specie di sordo ostracismo che lo mantiene a distanza, relegato a margine. Lo stesso sembra essere accaduto a molti degli scrittori praghesi ebrei di lingua tedesca rispetto alla compagine slava della loro città, determinando così una fatale attrazione. Kafka “era avido di cultura ceca”, spiega Ripellino. Il suo rapporto con la lingua slava non era quello di “un conferenziere in tournée […] che tende l’orecchio a sorprendere fonemi incogniti”, ma si sforza di penetrare il ceco “con sottilità filologica”.7
E la passione di Kafka per la lingua ceca non è altro che lo specchio dell’interesse che egli nutriva per molti aspetti della cultura boema: la letteratura, che cerca di leggere in lingua originale, la pittura e la musica.8 Praga, prigione e patria agognata di un apolide, permea la narrativa di Kafka, anche quando non è descritta apertamente, come nel Processo o nel Castello. Per tutta la vita Kafka abitò entro il “cerchio incantato della Città Vecchia”, sebbene abbia più volte cambiato dimora in cerca di un luogo sereno dove poter scrivere.9 Kafka è un “ebreo praghese di lingua tedesca che vive come in contumacia in un mondo slavo.”10 Per tutta la vita desiderò andarsene, senza mai farlo davvero, come prigioniero di un misterioso incantamento della città vltavina. Dal nitido narrare di Descrizione di una battaglia, si deduce che Kafka amava le passeggiate notturne per la città, illuminate dalla luce riflessa dalla neve.11 Trascorreva ore a camminare entro il quadrilatero del centro storico, oppure arrampicandosi sul Monte San Lorenzo, vittima di una magia oscura, inequivocabilmente praghese, che lo costringe a vagare, incapace di star fermo. E a questo proposito, scrive Ripellino:
L’eroe precipuo della dimensione magica di Praga è il pellegrino, il viandante, che riappare costantemente nelle lettere boeme con nomi diversi: “poutník” (pellegrino), “chodec” (passante), “tulák” (vagabondo), “krácivec” (camminatore), “kolemjdoucí” (girovago), “svédek” (testimonio). Il capostipite di questa numerosa famiglia è il “Poutník”, il Pellegrino, del romanzo allegorico Labyrint svéta a ráj srdce (Labirinto del mondo e paradiso del cuore), che Jan Amos Komensky scrisse a Brandys nad Orlicí, nel 1623, dopo la disfatta della Montagna Bianca.12
Kafka individua nella figura del Pellegrino di Comenius la matrice d’innumerevoli viandanti letterari che lo seguiranno e lo descrive come dotato di una forte “sostanza praghese”.13 Questi percorre la città, restando però sempre ai margini, nascondendosi, quando è necessario, “nel proprio silenzio, sfuggendo così alla gabelliera inquisizione di chi vorrebbe sequestrargli il pensiero”.14 Siamo davanti all’archetipo del “pellegrino contumace” descritto da Kafka, insito nella stessa essenza della città vltavina.
Secondo quanto emerge dalla rassegna di testi raccolti in Praga magica, la funzione centrale della figura del viandante è indiscutibile nella letteratura ceca di lingua slava e tedesca. Essa funziona per Ripellino come una sorta di chiave interpretativa dell’esperienza letteraria latu sensu ed è possibile riconoscere nell’insistenza a parlarne l’importanza simbolica che il poeta italiano le attribuisce. Qualche anno prima della pubblicazione del saggio sulla città di Kafka, Ripellino aveva dedicato una poesia proprio alla figura del viandante marginale:
Quando tra noi c’è un viandante
lo guardano tutti sorpresi, con labbra violacee.
Come una famiglia di cere contempla gli estranei.
Tutti lo chiamano Klouzek. È un fungo,
un’assurda escrescenza, colui che scivola.
Una brigata sonnolenta in un festino,
se scossa da un’apparizione inattesa,
da bianchi musi di gesso, dai soffi e dai lazzi,
dalle pupille febbrili di uno spauracchio,
scalpita e fugge come un armento di pazzi.
Ma a chi fa paura un viandante,
che sbircia dall’orlo e non mette becco,
un provvisorio, già pronto a svanire,
al richiamo di un lontano clàcson?15
Il viandante è un’escrescenza, un corpo estraneo che spunta dal terreno della normalità e scivola via nel silenzio di un bosco umido. Sorprende i più quel “tutti” che si sostituisce al “noi” del primo verso, ma l’informe gruppo stordito dai festeggiamenti, non rimane colpito dalla figura dimessa in cui s’imbatte. Il pellegrino contumace di Ripellino, come l’ebreo tedesco nella Praga slava, si nasconde dietro il bavero del cappotto e non entra nel merito. È provvisorio, può sparire così com’è apparso, senza fare rumore. E soprattutto, il viandante di Ripellino, è irrimediabilmente solo. Nessuno lo teme, è vero, ma lo scotto da pagare per un solitario pellegrino della letteratura non è poco:
Guai a chi si costruisce il suo mondo da solo.
Devi associarti a una consorteria
di violinisti guerci, di furbi larifari,
di nani del Veronese, di aiuole militari,
di impiegati al catasto, di accòliti della Schickeria.
E ballare con loro il verde allegro dello sfacelo,
le gighe del marciume inorpellato,
inchinarti dinanzi ai feticci della camorra,
come Abramo dinanzi al volere del cielo.
Guai a chi sulla terra è sprovvisto di santi,
guai a chi resta solo come un re disperato
fra neri ceffi di lupi digrignanti.16
La condizione marginale del viandante, immerso nel suo mondo di pensiero e riflessione, confluisce nella disperata solitudine di chi non ha ceduto a facili compromessi e si è mantenuto lontano dalle lusinghe del mondo “senza fantasia” – e dunque senza letteratura – di cui tanto spesso parla Ripellino.17 La fragilità del viandante praghese, come quella del pellegrino della letteratura, è in fondo l’effimero dell’uomo, del suo viaggio terreno per raggiungere l’Itaca di Kavafis. Per fortuna, la ricchezza di Praga magica, il suo essere deposito di una vita intera di letteratura, procura un rimedio inesauribile all’evanescenza provvisoria a cui il viandante sembra condannato. E proprio una delle sue visioni artistiche serve da spunto per proseguire questo itinerario per contaminazioni successive.
In Praga magica Ripellino dedica ampio spazio all’epoca di Rodolfo II d’Asburgo (1552-1612), melancolico e tetro sovrano del Sacro Romano Impero che trasferì la corte da Vienna a Praga. Rodolfo fu celebre per essersi circondato di astronomi, astrologhi, ma anche scultori e pittori, provenienti da tutta Europa. È il caso del pittore milanese Arcimboldo che si mise in viaggio alla volta di Vienna prima, e di Praga poi. L’estetica di Arcimboldo incarna magistralmente una delle anime della capitale boema: l’amore per l’assemblaggio di pezzi eterogenei, per la contaminazione fra corpi diversi che danno vita a una nuova natura. Rodolfo II amava infatti circondarsi di automata e fantocci animati, riproduzioni di quel golem che, secondo la leggenda ebraica, avrebbe visto la luce proprio nella Praga tardo-cinquecentesca, creato dal mago-rabbino Judah Low.18
Nei quadri del pittore milanese la sostanza onirica e il meraviglioso si assemblano in forma di frutti e ortaggi. E così prende vita la celebre serie delle Quattro Stagioni o il ritratto dello stesso imperatore boemo, ricomposto in un automa vegetativo, secondo un processo di “contaminazione” che è condizione necessaria e sufficiente per il processo artistico, per il movimento del pensiero. E l’Arcimboldo praghese di Ripellino, per “contagio”, permette di viaggiare fino a un’estrema città occidentale, adagiata sulle rive del fiume Tago, per le strade di un bairro moderno di fine Ottocento, dove passeggia un giovane poeta portoghese di nome Cesário Verde. Come Kafka, anche Cesário Verde non lasciò mai la sua città e, del tutto casualmente, come Ripellino, dovette combattere tutta la vita con la tubercolosi. Le deambulazioni poetiche del viandante Cesário avvengono tra due spazi distinti, quello della città e quello della campagna, che si susseguono in dicotomici intrecci lirici. Ci occuperemo qui solo della sua vertente di poeta cittadino, eminentemente lisboeta.
Nella poesia Num bairro moderno [In un quartiere moderno]19, il poeta racconta l’incontro, su una delle infinite scalinate che si arrampicano per Lisbona, con una giovane verduraia che sosta, dopo aver appoggiato a terra la cesta con i suoi ortaggi. La vista di quel canestro scatena in Cesário Verde una colorata visione poetica:
[..] All’improvviso – che visione d’artista! –
S’io trasformassi quei semplici vegetali
Alla luce del Sole, l’intenso colorista,
In un essere umano che si muova ed esista
Ricco di belle proporzioni carnali?
Aleggiano aromi, fumi di cucina;
Con il cesto sulle spalle, ricurvi
Ecco i panettieri, bianchi di farina;
E ai portoni, qua e là un campanello
suona, frenetico, ogni tanto.
E io ricomporrei, secondo anatomia,
Un nuovo corpo organico, pezzo dopo pezzo.
Troverei i toni e le forme. Scoprirei
Una testa in un’anguria
E nei cavoli due seni innestati.
Le olive, che ci danno l’olio,
Nere e unite, tra verdi fogliami,
Sono trecce di una chioma scomposta;
E le rape – ossa nude, color del latte,
E i grappoli d’uva – i rosari degli occhi.
Ci sono colli, spalle, bocche, un sembiante
Nelle posizioni di certi frutti. E tra
Le verdure, tumido, fragrante,
Come colui che si mangerà ogni cosa
Spunta un melone, che mi ricorda un ventre.
E, come un feto, insomma, che si dilati,
Ho visto nelle verdure carni tentatrici,
Sangue nella marasca vivida, scarlatta,
Dei cuori buoni a pulsar nei pomodori
E dita irte, rubre, nelle carote20
Per contaminazione, Cesário trasforma con la fantasia gli ortaggi della ragazza in una figura umana, in un automa arcimboldesco che avrebbe fatto la felicità di Rodolfo II: immagina diversi corpi organici che si ricompongono in un meraviglioso e sensuale corpo di donna. E l’importanza di Num bairro moderno risiede proprio nel fatto che quest’immagine centrale si rivela metafora della poesia stessa. La visão de artista del lisboeta Cesário è, infatti, una ricomposizione di altri corpi poetici, come bene ci mostra Stephan Reckert.21 La letteratura, come il viaggio e la città, risulta sempre in una “contaminazione”, più o meno volontaria, ma inevitabile. All’interno della lirica di Cesário Verde, infatti, agiscono diversi significanti che derivano dai Tableaux parisiens di Baudelaire, forse il più esemplare fra i poeti cittadini di fine Ottocento. Reckert individua tracce di tre diverse liriche: Le soleil, À une mendiante rousse e Les sept viellards. Quest’ultima lirica, in particolare, fornisce a Cesário l’occasione poetica: un uomo vaga senza meta per un fabourg, un bairro, bagnato dal sole del mattino.
[…]
Brulicante città, città colma di sogni
dove uno spettro in pieno giorno abborda i passanti!
Come linfe i misteri scivolano per ogni
dove, lungo i canali del colosso imponente.
Un mattino, nell’ora che la bruma per strada
fa più alte le case e le fa somigliare
agli argini d’un fiume che una gran piena invada,
e appropriato al cuore d’un attore, un fondale
di nebbia gialla e sporca l’aria va rimpastando,
me ne andavo, coi nervi eroicamente tesi,
soltanto con me stesso già stanco ragionando,
lungo il sobborgo scosso da carri rumorosi.22
La Parigi di Baudelaire pleine de rêves rimanda di nuovo il peregrinare del pensiero alla ville blanche portoghese di cui scriveva Cesário Verde, in particolare a un sogno che di Lisbona ha avuto uno dei più importanti scrittori italiani contemporanei: Antonio Tabucchi, in Requiem, sogna un viaggio per la capitale portoghese, città dove, come nel fabourg di Baudelaire, non è raro che [un] spectre en plein jour raccroche le passant.
Requiem è un percorso per Lisbona e dintorni che si consuma in una torrida domenica di luglio. Requiem è un’allucinazione, come indica il sottotitolo del romanzo, un’allucinazione che scaturisce da un sogno e che con i sogni condivide la caratteristica di muoversi contemporaneamente su più dimensioni. Incontriamo l’“io” che narra la propria storia all’ora in cui il sole del mezzogiorno comprime le ombre fino a renderle assurde. Attende qualcuno sul molo di Alcântara, qualcuno che non arriva. Ed è precisamente questa assenza, questo probabile errore di calcolo (ha forse scambiato le 12 antimeridiane con le 12 postmeridiane?), che spinge il personaggio a intraprendere un viaggio attraverso la città di Lisbona, il proprio passato e il proprio inconscio. Si tratta di un pellegrinaggio ucronico e utopico, sebbene scandito dal passare delle ore e dai diversi luoghi che l’“io narrante” raggiunge secondo un itinerario precisamente improvvisato. Figure simbolo di un secolo che sta per iniziare, come il “Ragazzo drogato” o il “Tassista”, emigrante senza permesso di São Tomé e Príncipe, si alternano a personaggi che appartengano a quello che sta per terminare, come il “Barman del Museo di Arte Antica”, sapiente miscelatore di cocktail finito a servire limonate o il “Maître della Casa do Alentejo”, relegato a proporre il menu del giorno ai più disparati avventori, dopo una vita trascorsa in mezzo ai ricchi, come primo cameriere del prestigioso ristorante Tavares di Lisbona. Tuttavia, in questa Lisbona passata e presente, è se stesso che cerca l’“io narrante”, che sembra avvertire l’esigenza di chiarire alcuni punti oscuri della propria vita. Nell’aria sospesa dell’afa di luglio, i morti e i vivi s’incontrano nella luce abbacinante del sogno, perché l’“io” ha bisogno di liberarsi dei propri numi tutelari, di rincontrare i propri penati per poterli lasciare definitivamente sulla balaustra del camino, fuori da sé.
L’episodio in cui il narratore parla con suo padre, costituisce il nucleo onirico centrale che ha dato origine al romanzo e alla scelta di usare la lingua portoghese.23 Il padre è più giovane di lui, in quel momento, eppure è suo padre, e gli chiede di conoscere le circostanze della propria morte. Sostano entrambi, momentaneamente sospesi fra il passato del padre e il presente onirico del figlio, che dorme la siesta in un albergo a ore di Lisbona e sogna la conversazione in portoghese. L’“io narrante” compie un viaggio fra il passato e il futuro del padre, lo codifica nella lingua del proprio presente, scissa dal suo patrimonio familiare e così facendo rende oggettivo il distacco, rimargina una ferita ancora aperta.
La seconda figura da cui l’“io narrante” ha necessità di separarsi costituisce, invece, il dispositivo narrativo che innesca la narrazione dall’interno. Il “Convitato” che appare alla fine del romanzo è lo stesso personaggio che egli attendeva sul molo di Alcântara ed è sua la voce che risuona in molti angoli della Lisbona rivisitata dal personaggio che, pagina dopo pagina, canta il suo Requiem. Il viaggio conduce al punto di partenza, dove l’“io” affronta il fantasma più ingombrante della propria esistenza intellettuale. E questo incontro dà origine a un’appassionata riflessione sulla letteratura. In un ristorante definito post-moderno, il protagonista del romanzo cena con uno dei più grandi poeti del Novecento: Fernando Pessoa. Questi gli ha dato appuntamento perché vuole conoscere le sue intenzioni nei propri confronti. In realtà, è l’“io” narrante che ha trovato un escamotage onirico per dire a uno dei suoi numi tutelari che vorrebbe “smettere di avere bisogno di lui”.
Non è stato bene in mia compagnia?, chiese lui. No, risposi, è stato molto importante, ma mi ha inquietato, ecco diciamo che mi ha inquietato. Eh, già, confermò lui, con me va sempre a finire così, ma senta, non crede che sia proprio questo che la letteratura deve fare, inquietare?, da parte mia non ho fiducia nella letteratura che tranquillizza le coscienze. Nemmeno io, approvai, ma vede, io sono già abbastanza inquieto per conto mio, la sua inquietudine si aggiunge alla mia e produce angoscia. Preferisco l’angoscia ad una pace marcia, affermò lui, tra le due cose preferisco l’angoscia.24
La letteratura produce inquietudine, come i fantasmi. Un’inquietudine che ci impedisce di stare fermi, di restare composti. Il verbo portoghese utilizzato nella versione originale del romanzo non è inquietar, bensì desassossegar. Si tratta di un derivato mediante prefisso sottrattivo (Serianni) del verbo sossegar, termine che i lessici portoghesi spiegano come risultante da un supposto verbo latino *sessicare, procedente da sessus, -us, infinito perfetto di sedeo, che indica l’azione di “stare seduti” e, per estensione, tranquilli. La letteratura, quella vera, costringe dunque ad alzarsi dalla sedia, e quindi a mettersi in viaggio, proprio come accade al protagonista di Requiem. Un viaggio che può anche limitarsi alla permanenza in un unico luogo, anche perché forse è proprio lo stimolo del limite spaziale “che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude”, a determinare il coraggio della creazione letteraria. Il “Convitato” di Requiem ricorda al suo interlocutore, che lo definisce “lo scrittore più europeo della letteratura del ventesimo secolo”, di non aver mai lasciato Lisbona e fra i due nasce uno scambio di battute in merito a letteratura e coraggio:
[…] l’Europa mi piaceva, sì, ma come concetto, sul piano mentale, a ben vedere erano altri quelli che mandavo in giro per l’Europa […] forse sono stato un po’ vigliacco, mi capisce?, ma lasci che le dica che proprio della vigliaccheria sono nate le pagine più coraggiose del nostro secolo, pensi per esempio a quel cecoslovacco che scriveva in tedesco, ora non mi viene in mente il suo nome, non crede che abbia scritto pagine di un coraggio stupefacente? Kafka, dissi io, si chiamava Kafka. Lui sì disse, e tuttavia anche lui era un po’ vigliacco.25
Una conversazione in un bel ristorante di Lisbona tra uno scrittore italiano e il protagonista eccellente delle avanguardie portoghesi, rimanda nuovamente a Kafka e al suo essere pellegrino contumace in un’unica città. Secondo Tabucchi la codardia di Kafka è la stessa di Pessoa, viandanti che si auto-confinano entro i limiti urbani di due capitali europee di frontiera che acquisiscono, grazie alle pagine che ci hanno lasciato, statuto di luoghi letterari. Tuttavia, come suggerisce il “Convitato” di Requiem, è da questo genere di vigliaccheria umana che nasce il coraggio della scrittura. E non è un caso che questa particolare qualità del cuore umano si muova, in letteratura, su più lingue: il coraggio ha a che vedere con la contaminazione. Angelo Maria Ripellino, poeta italiano nato in Sicilia, slavo d’adozione, traduttore d’eccellenza che per primo ha fatto conoscere in Italia scrittori del calibro di Hrabal o Pasternak. Franz Kafka, germanofono in terra slava, in costante dialogo emotivo con la lingua e la cultura ceca. Fernando Pessoa, poeta dai mille volti e di almeno due lingue d’elezione, il portoghese e l’inglese della sua infanzia. E, infine, Antonio Tabucchi, scrittore italiano per il quale il portoghese è “un luogo di affetto e riflessione”26, e che decide di scrivere un romanzo proprio in questa lingua divenuta anche sua.
Letteratura e viaggio si definiscono e determinano a vicenda, anche e soprattutto perché l’inquietudine provocata dalla vera letteratura impedisce ai suoi fruitori di restarsene composti, li spinge a mettersi continuamente in cammino. La capacità di muoversi fra le lingue, poi, appare condizione essenziale perché avvenga quella contaminazione che garantisce lo sviluppo rigoglioso della letteratura stessa, motore del viaggio a essa collegato. Ed è una caratteristica di scrittori della stirpe di quelli di cui si è umilmente parlato, ai quali siamo grati perché, giorno dopo giorno, con il loro peculiarissimo coraggio, aiutano i loro lettori a continuare e ad arricchire il proprio viaggio ineluttabile.
1 Angelo Maria Ripellino, Letteratura come itinerario nel meraviglioso, Torino, Einaudi, 1968.
2 Angelo Maria Ripellino, L’arte della fuga, Napoli, Guida, 1987.
3 Angelo Maria Ripellino, Praga magica (I ed. 1973), Torino, Einaudi, 1991.
4 Ivi, p. 5.
5 Ivi, p. 25.
6 Ivi, p. 26.
7 Ivi, p. 43.
8 Ivi, p. 45.
9 Si veda a questo proposito Klaus Wagenbach, Due passi per Praga insieme a Kafka, trad. it. di Cesare De Marchi, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 95-115. “Kakfa fu un accanito camminatore e indiano metropolitano: passeggiava di giorno feriale, la sera, anche di notte, per ore, sovente da solo. Evidentemente questo aveva a che fare con la sua tecnica di scrittura: quasi nessun appunto o abbozzo, ma lunghe riflessioni preparatorie”. Ivi, p. 95.
10 A. M. Ripellino, Praga magica, op cit., p. 60.
11 Franz Kafka, Descrizione di una battaglia, Bagno a Ripoli, Passigli, 2008.
12 Ivi, p. 49.
13 Ivi, p. 52.
14 Ibidem.
15 Angelo Maria Ripellino, “Notizie dal diluvio”, in Alessandro Fo, Federico Lenzi, Antonio Pane e Claudio Vela (a cura di), Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde, Torino, Einaudi, 2007, p. 40.
16 A. M. Ripellino, “Lo splendido violino verde”. Ivi, p. 202.
17 Cfr. Alessandro Fo, “Trent’anni dopo: Ripellino in ‘Tutte le poesie’”, in A. M. Ripellino, Notizie dal diluvio. Sinfonietta. Lo splendido violino verde, op. cit., in particolare pp. VII e VIII.
18 A. M. Ripellino, Praga magica, op. cit., pp. 101-103.
19 Cesário Verde, O livro de Cesário Verde, Lisboa, Assírio & Alvim, 2004. Traduzione dell’autrice.
20 […] Subitamente – que visão de artista! – / Se eu transformasse os simples vegetais, / À luz do Sol, o intenso colorista, /Num ser humano que se mova e exista / Cheio de belas proporções carnais?! Bóiam aromas, fumos de cozinha; / Com o cabaz às costas, e vergando, / Sobem padeiros, claros de farinha; / E às portas, uma ou outra campainha / Toca, frenética, de vez em quando. E eu recompunha, por anatomia, / Um novo corpo orgânico, aos bocados. /Achava os tons e as formas. Descobria / Uma cabeça numa melancia, / E nuns repolhos seios injectados. As azeitonas, que nos dão o azeite, / Negras e unidas, entre verdes folhos, / São tranças dum cabelo que se ajeite; / E os nabos – ossos nus, da cor do leite, / E os cachos de uvas – os rosários de olhos. Há colos, ombros, bocas, um semblante / Nas posições de certos frutos. E entre / As hortaliças, túmido, fragrante, / Como dalguém que tudo aquilo jante, / Surge um melão, que me lembrou um ventre. E, como um feto, enfim, que se dilate, / Vi nos legumes carnes tentadoras, / Sangue na ginja vívida, escarlate, / Bons corações pulsando no tomate / E dedos hirtos, rubros, nas cenouras
21 Stephan Reckert, “Baudelaire, Cesário e a arte de fazer o novo”, in Um ramalhete para Cesário, Lisboa, Assírio & Alvim, 1987.
22 […] Fourmillante cité, cité pleine de rêves, / Où le spectre en plein jour raccroche le passant! / Les mystères partout coulent comme des sèves / Dans les canaux étroits du colosse puissant. Un matin, cependant que dans la triste rue / Les maisons, dont la brume allongeait la hauteur, / Simulaient les deux quais d’une rivière accrue, / Et que, décor semblable à l’âme de l’acteur, Un brouillard sale et jaune inondait tout l’espace, / Je suivais, roidissant mes nerfs comme un héros / Et discutant avec mon âme déjà lasse, / Le faubourg secoué par les lourds tombereaux. Charles Baudelaire, I Fiori del male, trad. it. di Antonio Prete, Milano, Feltrinelli, 2003.
23 Cfr. Antonio Tabucchi, “Un universo in una sillaba. Vagabondaggio intorno a un romanzo”, in Autobiografie altrui, Milano, Feltrinelli, 2003, pp. 15-39.
24 Antonio Tabucchi, Requiem (I ed. 1992), Milano, Feltrinelli, 1998, p. 119.
25 Ivi, pp. 121-122.
26 Ivi, p. 7.