La caduta dei limiti: il cinema alla conquista dello spazio

Francesco Giarrusso 

L’Arrivée d’un train à La Ciotat (Auguste e Louis Lumière, 1896). Il mondo ci viene incontro trainato dalla locomotiva. Il terrore non scaturisce dall’impressione di realtà, dal timore di essere investiti dalla macchina a vapore, ma dalla dissoluzione dello spazio le cui immagini, cominciando da allora a diffondersi ovunque, si disperdono oggigiorno come la colonna di fumo che aleggia nella stazione di La Ciotat.

Giunta a destinazione, dopo secoli di viaggi e esplorazioni, l’umanità pare realizzare il sogno di percorrere il mondo in linea retta, senza alcuna interruzione, potendone scrutare gli angoli più remoti. In un batter d’occhio la Terra si apre alla voracità scopica dell’umanità, la cui visione sfonda l’abituale orizzonte percettivo per comprenderne l’intera estensione. Non vi è più alcun segreto: la conquista dell’ecumene è ormai compiuta, l’immagine si è impossessata del mondo sostituendolo con un succedaneo di gran lunga più attraente e efficace.

L’incremento ipertrofico di spettacoli e dispositivi ottici di ogni genere, soprattutto nella seconda metà del XIX secolo, viene a proclamare, definitivamente, la supremazia dell’occhio in quanto organo per eccellenza deputato all’osservazione della realtà. L’immagine assurge a protagonista assoluta di tutti quei processi rivolti all’esplorazione e conoscenza del mondo, le cui meraviglie, ormai fruibili pressoché da chiunque, vengono a compiacere le platee delle grandi città. Nel corso di tutto l’Ottocento assistiamo a un processo di potenziamento delle facoltà visive, a un ampliamento del loro raggio d’azione che, in concomitanza con l’avanzamento tecnologico relativo agli strumenti di riproduzione delle immagini, consentono all’esperienza umana di addentrarsi in regioni e spazi prima inaccessibili. Basti pensare al rapido consolidamento della pratica fotografica, alle ricerche condotte da Étienne-Jules Marey e Eadweard J. Muybridge circa il sezionamento e l’osservazione della locomozione animale, al diffondersi in ambito urbano dell’illuminazione artificiale, la cui comparsa pone letteralmente sotto una nuova luce spazi in precedenza avvolti nell’oscurità della notte, o alla proliferazione di mezzi di trasporto quali i treni, la cui rapidità consente all’occhio umano di godere della successione di orizzonti un tempo irraggiungibili a una velocità, solo qualche anno addietro, inimmaginabile.

La natura si fa spettacolo ed ecco allora che il viaggio in treno è antesignano della fruizione cinematografica. Invero, non solo la scienza trae profitto dai risultati conseguiti dall’ottica, gli apporti tecnologici rivolti all’esplorazione del visibile si ripercuotono altresì nell’attività ricreativa con l’affermarsi sintomatico degli spettacoli panoramici. Le enormi tele dipinte e esposte nei panorami manifestano “il tentativo del cittadino di importare il paesaggio nella città”1, e se l’affinità con l’avanzare del convoglio ferroviario pare esaurirsi a una mera analogia metaforica, la simulazione messa in scena dai Moving Picture diffusi negli Stati Uniti non fa altro che corroborare la diretta filiazione tra la visione esperita dal finestrino di una carrozza ferroviaria e la percezione dell’immagine cinematografica. Rispetto ai panorami europei, la versione statunitense apporta una profonda modifica per quanto concerne il ruolo dello spettatore. La mobilità dell’osservatore che si disloca lungo la tela è sostituita qui dalla successione di una serie di immagini come se fossero percepite da un treno in movimento. Lo spettatore dei Moving Picture assiste immobile al procedere della tela dipinta anticipando la condizione spettatoriale propria del dispositivo cinematografo. Ed è sorprendente constatare come il cinema tragga ispirazione dal treno riproponendone persino gli spazi e le fattezze. Gli Hale’s Tour di George Hale attestano tale intrinsecità. Le proiezioni hanno luogo in sale simili a carrozze ferroviarie dai cui finestrini gli spettatori assistono a delle immagini pittoresche dell’America di inizio Novecento, precedentemente registrate dal retro di un convoglio in movimento.

Il cinematografo è, al pari della locomotiva2, l’ultimo mezzo di trasporto terrestre con cui ha termine la globalizzazione.3 Entrambi consentono, a un sempre maggior numero di individui, di percorrere ampi spazi nel minore tempo possibile, proclamando il trionfo della modernità, il dominio della tecnica sulla Terra ridotta a globo. Dal primo viaggio di Cristoforo Colombo alla prima trasmissione radio di Guglielmo Marconi, la civiltà occidentale si è sempre spinta alla conquista della spazio, alla sua inventariazione e appropriazione. La colonizzazione delle terre e la conversione delle anime: ecco l’intento soggiacente alla mobilitazione degli uomini, alla soppressione delle distanze, alla riduzione dell’ecumene, la cui miniaturizzazione mira a imbrigliare il mondo in una rete che lo contiene per meglio percorrerlo e controllarlo. “Il cinema va dappertutto.”4 Fin dai primi istanti della loro attività cinematografica, i fratelli Lumière hanno inviato ai quattro angoli della Terra i loro operatori affinché registrassero l’umanità e il mondo, facendone dono alla borghesia occidentale dietro il cui interesse per l’esotico si cela la bramosia di potere e la visione etnocentrica che da sempre le sono proprie. Il cinematografo sostituisce e aggiorna la politica imperialista degli Stati-Nazione, ormai prossima al disfacimento, cristallizzandone l’essenza nell’immagine cinematografica sotto la cui egida hollywoodiana gli Stati Uniti eserciteranno a livello planetario tutta la loro influenza culturale nonché politica.5

I fratelli Lumière non insistettero nelle enormi potenzialità economiche del nuovo dispositivo (non certo per una scarsa lungimiranza per gli affari!), anzi, la loro decisione di abbandonare l’attività cinematografica rivela, in un certo qual modo, la constatazione della fragilità dell’immagine analogica e dell’impossibilità di costituire una vera e propria iconoteca universale. Non che al cinema mancasse tale propensione. Fin dal suo avvento venne sempre celebrata la sua capacità “di ‘abbracciare’ il mondo: esso [il cinema] sa tenere nelle proprie mani tutti i domini della natura, l’umano, l’animale, il minerale, il vegetale; e facendo propri tutti questi domini, sa anche  adottarne le diverse ottiche.”6 Ed è proprio tale proteismo, insieme all’apparente ubiquità che esso simula nel passare da un “quadro” all’altro della natura, da una inquadratura all’altra del testo filmico – è bene ricordarlo –, a dare inizio al processo di smaterializzazione del mondo il cui esito è portato a compimento dall’elaborazione della prima immagine elettronico-numerica: il cinematografo preconizza la disfatta del mappamondo in favore dell’immagine satellitare.

Le voyage dans la Lune (Georges Méliès, 1902). Il disegno tracciato sulla lavagna dà a vedere il tragitto che l’umanità percorrerà da lì a poco. La rete che avvolge il globo si dipana, puntando verso gli abissi del cosmo, e l’orizzontalità, che fin dall’epoca delle grandi scoperte caratterizzò le dislocazioni terrestri e marittime, cede ora spazio alla verticalità e alla spinta propulsiva della tecnica. Sebbene il suo velivolo sia più pesante dell’aria, Méliès si spinge oltre il cielo di Gaspar F. Nadar, vincendo una volta per tutta la gravità. Perché il cinematografo è uno dei mezzi di trasporto più efficienti e potenti che ci siano mai stati, precursore dei viaggi spaziali della seconda metà del XX secolo, la cui invenzione accelerò quel processo di contrazione che vide la Terra, da immensa sfera qual era, ridursi a un punto qualunque dello spazio. Gli strumenti ottici puntati al cielo riducono la gittata che separa la compagine di esploratori dal suolo lunare. L’occhio si estende annullando le distanze: solo pochi secondi separano la preparazione del viaggio all’arrivo sulla Luna e il sogno ubiquitario dell’umanità prende corpo grazie al montaggio.

Non solo. La distensione dello sguardo oltre gli orizzonti consueti manifesta l’esigenza, sentita vivamente all’epoca, di approssimarsi, spazialmente e umanamente, alle cose, cercando di coglierne la natura profonda. In questo senso, il cinematografo si accosta, seppur mantenendo un certo alone di magia, a altri strumenti di osservazione con i quali continua a condividerne l’intento: quello di penetrare la materia per sondarne e ammirarne la composizione. La presunta obiettività della registrazione meccanica fa sì che il mezzo cinematografico venga adoperato anche come strumento tecnico da laboratorio al servizio della scienza e dello studio della realtà fenomenica. E sono varie le strategie adottate affinché penetri nelle cose allargando lo spettro visivo dell’occhio umano.

La carrellata ante litteram con cui lo spettatore accompagna in soggettiva il viaggio del razzo, sebbene mostri il volto fittizio della Luna ricreata con espedienti degni dell’arte illusionistica di Méliès, preannuncia il potere visivo e visionario del dispositivo cinematografico. Sia che il cinema ri-produca la realtà effettiva o ri-costruisca un mondo possibile, esso prolunga e riformula sullo schermo la nostra relazione scopica con il mondo, rivelando e rinnovando, al contempo, la nostra posizione dinanzi ad esso. L’approssimarsi del razzo al suolo lunare non solo consente di ammirare le protuberanze disseminate sulla sua superficie, ma ne rivela lo spirito mediante l’assunzione di un punto di vista ravvicinato imprescindibile per inquadrarne l’anima. Il primo piano del volto della Luna scopre l’intima fisionomia del paesaggio, ne coglie la maestosità esprimendone tutta la forza tellurica. Ma il paesaggio non esiste finché qualcuno non lo riconosca come tale, solo il territorio può prescindere dalla presenza umana. Ed è proprio l’uomo, il soggetto, “quello che tutto conosce, e da nessuno è conosciuto”7, a attribuire allo spazio osservato la connotazione di paesaggio, accecandolo affinché possa conoscerlo e appropriarsene. La rappresentazione ha inizio nel momento in cui l’oggetto rappresentato è inerme nella sua cieca immobilità. E ora la Luna è finalmente alla mercé dell’equipaggio terrestre.

A ben vedere, l’uomo di Méliès, lungi dal far propria la Luna, satellite inospitale e colmo di insidie, abitato da bizzarre creature che ne occupano le profondità, conquista la Terra, tutta intera, ammirandola dalla spazio mentre si alza all’orizzonte. Questo punto d’osservazione esterno esplicita visivamente la posizione teorica assunta, sin dalla sua affermazione, dalla scienza moderna per cui è analizzabile solo ciò da cui l’umanità prende le distanze, alienandosi “dal suo ambiente immediato e terreno”.8 Questo allontanamento produce una drastica riduzione delle dimensioni della Terra aumentando, per quanto a prima vista possa sembrare insolito, la sua visibilità. Tale processo di contrazione, avente origine paradossalmente dal desiderio dell’umanità di espandere i propri orizzonti conoscitivi, conferma come il distanziamento dall’oggetto osservato sia la premessa necessaria affinché l’umanità, avvicinandosi a esso, possa misurarlo e quindi conoscerlo. Compresa entro i bordi di un’immagine, la Terra, un tempo incommensurabile, si tramuta ora in una sfera i cui punti, perfettamente individuabili sul reticolo che la ingloba, sono ridotti a semplici rette percorribili dall’occhio.

À la conquête du Pôle (Georges Méliès, 1912). Il mondo intero in una una stanza. Ridotto a una palla, assiste all’esposizione concitata di varie delegazioni provenienti da tutto il pianeta, smaniose di raggiungere l’ultima regione terrestre rimasta inesplorata: il Polo Nord. I globonauti si apprestano a dare inizio alla spedizione. Automobili, navi, dirigibili, mongolfiere, strane macchine di locomozione vengono proposte affinché la tecnica abbia la meglio sulla natura e il mondo non abbia più nulla da nascondere. Ma la Terra non garantisce la velocità adeguata per i tempi che corrono e il viaggio deve compiersi il più rapidamente possibile, evitando le irregolarità e le insidie disseminate sulla sua superficie. L’ingegnere Maboul, letteralmente “folle”, ci invita a spiccare il volo alla conquista del mondo, ma di certo non sarà la sua strana macchina a condurre l’uomo al Polo. È il cinematografo, l’unico mezzo capace di proiettare l’umanità verso terre lontane, rendendola partecipe in massa all’ultima esplorazione che le è concessa fare. Sì, perché l’immagine cinematografica ha invaso ormai il mondo intero e lo percorre a una velocità mai vista prima, prefigurando quell’immenso ingorgo che Delluc, già nei primi anni venti del XX secolo, intuì quando definì il cinema un’“industria espressiva che tende […] alla perfezione simultanea dell’arte e del traffico”.9

Gli innumerevoli velivoli che sfilano, quasi facessero a gara con le costellazioni e le comete per giungere a destinazione, palesano l’omogeneità dello spazio, uniforme poiché dall’alto dei cieli non si è più in grado di discernere le particolarità dei luoghi. Il traffico è intenso. Le traiettorie dei mezzi aerei disegnano nuove mappe fatte di rette invisibili, di nuove tratte attraverso cui l’immagine-merce si dislocherà viaggiando al di sopra delle nostre teste. La smaterializzazione della rete terrestre ha inizio. Charles Lindbergh ne dimostrerà l’inconsistenza e il traffico aereo, che a breve avvolgerà la Terra, verrà a sostituire l’involucro che per circa cinque secoli ha sostenuto le nostre credenze.

Il mondo non è altro che una palla su cui esercitare/rivendicare il diritto di proprietà e l’ingegnere Maboul, sorridente, lo sa bene poiché ne ha un esemplare. Non è il mondo che precede la mappa, bensì è la mappa che precede il mondo, determinandone il possesso. L’immagine bidimensionale implica e legittima la proprietà. La tridimensionalità è bandita dalla rappresentazione affinché il mondo, colto nella sua piattezza, possa essere compreso e soggiogato. L’immagine trionfa sul corpo e solo colui che tramuta la sfera in superficie e il mondo in quadro detiene il potere sullo spazio: “[l]’imperialismo è planimetria applicata”10 e il cinematografo il suo più recente esecutore.

 


1 Walter Benjamin, Parigi. Capitale del XIX secolo. 2. Daguerre o i panorami, in Angelus Novus, trad. it. di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1995, p. 149.

2 Per quanto concerne le riflessioni circa la similarità tra la visione cinematografica e l’esperienza del viaggiatore ferroviario si veda: Jacques Aumont, L’occhio interminabile. Cinema e pittura, trad. it. di Daniela Orati, Venezia, Marsilio, 1991; Francesco Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Milano, Bompiani, 2005. Per un maggior approfondimento sulla storia della ferrovia e sull’esperienza che di essa ha il viaggiatore moderno, si veda Wolfgang Schivelbusch, Storia dei viaggi in ferrovia, trad. it. di Consolina Vigliero, Torino, Einaudi, 2003.

3 Qui faccio miei i concetti di globalizzazione e tripartizione della storia dell’umanità secondo l’ipotesi neomorfologica proposta da Peter Sloterdjik. In merito alla nozione di globalizzazione del filosofo tedesco, si vedano Il mondo dentro il Capitale, trad. it. di Silvia Rodeschini, Roma, Meltemi, 2006 e la trilogia Sfere composta da: Sfere. I. Bolle. Microsferologia, trad. it. di Gianluca Bonaiuti, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2014; Sfere. II. Globi. Macrosferologia, trad. it. Silvia Rodeschini, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2014; Sfere. III. Schiume. Sferologia plurale, trad. it. di Gianluca Bonaiuti e Silvia Rodeschini, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2015.

4 Louis Delluc in Francesco Casetti, L’occhio del Novecento. Cinema, esperienza, modernità, Milano, Bompiani, 2005, p. 29.

5 Già nel 1919 Louis Delluc sottolineava lo straordinario potere persuasivo che il cinema esercita sulle masse: “Lo schermo è più efficace che un discorso politico sulle masse internazionali”. Ibidem.

6 Ivi, p. 69.

7 Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione (1819), trad. it. di Nicola Palanga (I ed. 1913), Libro Primo, § 2.

8 Hannah Arendt, The Human Condition, Chicago, The University Chicago Press, 1998, p. 251. Traduzione dell’autore.

9 L. Delluc in Francesco Casetti, op. cit., p. 29.

10 Peter Sloterdijk, Il mondo dentro il capitale, trad. it. di Silvia Rodeschini, Roma, Meltemi, 2006, p. 142.

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