Nicola Agazzi, architetto |
Alcuni rapporti tra musica e architettura sono molto semplici da intuire confusamente, delicati da precisare e definire, e non è possibile metterli in dubbio, poiché tutto ciò che è estetico è incerto. Ma a me sembrano clamorosi. Musica e architettura sono entrambe arti che non hanno bisogno di imitare le cose; sono arti in cui materia e forma hanno tra loro un rapporto più intimo che altrove; l’una e l’altra si rivolgono alla generale sensibilità. Entrambe ammettono la ripetizione, mezzo onnipotente; entrambe ricorrono agli effetti fisici della grandezza e dell’intensità, con cui possono stupire i sensi e la mente sino all’annichilimento. Infine, la loro rispettiva natura permette un’abbondanza di combinazioni e sviluppi regolari che le collegano o le confrontano con la geometria e l’analisi.1
La composizione architettonica è fortemente analoga a quella musicale: prende forma dal vuoto e si struttura mettendo in relazione le forme con l’assenza, i pieni con i vuoti, le luci con le ombre, così come nella composizione musicale si mettono in relazione suoni e pause, costruendo una ritmica, un movimento preciso attorno al vuoto. Indagare uno spazio, vivere un luogo, è godere di questi equilibri in rapporto tra loro, poterne percepire la sapiente metrica, il rigoroso rapporto armonico delle parti con il tutto che ci permette di distinguere, senza vederlo, l’ordine nascosto tra vuoto e materia.
Ci sono occasioni in cui la musica, quando mostra la sua intima essenza, si dissolve lentamente nel silenzio e anche l’architettura talvolta, per mostrare la sua essenzialità, si perde nel vuoto. Entrambe, per esistere, devono stagliarsi nel silenzio e nel vuoto. Il vuoto e la materia costruita sono dunque l’essenza dell’architettura: l’architettura è una forma di appropriazione degli spazi e dei luoghi della natura: dei suoi vuoti. Il vuoto viene dapprima recuperato, delimitato attraverso la forma finita e esatta della materia, poi sfruttato dalle condizioni fisiche della donna e dell’uomo, dalla loro presenza nello spazio che vivono; poi custodito, venerato, ricercato nella loro spiritualità, come nutrimento per l’anima. Pertanto, nella sua definizione, il vuoto ha valore sia oggettivo che soggettivo. È fatto fisico, oggettivo, nell’uso e nella vita dello spazio, nell’ordine dei registri della materia costruita che lo delimita e lo definisce. Poiché è attraverso la forma che possiamo percepire il vuoto.
Sosteneva Lucrezio nel De Rerum natura: “tutta la natura dunque, com’è per se stessa, consiste di due cose: ci sono i corpi e il vuoto, dove essi sono posti e nel quale in ogni parte si muovono.”2 È fatto spirituale, soggettivo e intimo, perché è nell’appropriazione del vuoto che l’architettura si carica di tutto il suo potere magico ed evocativo, in grado di inquietare o commuovere, calmare o rattristare, ordinare e purificare. Il vuoto, vissuto nelle più intime profondità, accettato nel suo mistero, diventa esperienza personale e memoria. È attivatore della coscienza poiché, immersi in esso, totale è la percezione dentro e fuori se stessi e permette a chi lo accoglie e vive con lucidità e calma di ritrovare equilibrio nel processo della propria elaborazione e crescita interiore, di trovare la chiarezza necessaria per affrontare il proprio presente. Il vuoto in architettura è fatto dunque fortemente esperienziale e gli architetti e costruttori nella storia ricorrono ad esso come mezzo primordiale, generatore di nuovi archetipi e rinnovata potenza espressiva.3
Qualsiasi opera costruita è una virtuosa proporzione di pieni costruiti e vuoto raccolto e custodito in equilibrio tra loro e inventare uno spazio significa dare una larghezza, una profondità e un’altezza, entità che l’uomo mette in rapporto con se stesso e quanto lo circonda. Scrive Giedion:
Il primo fatto notevole intorno allo spazio visivo è il suo vuoto, un vuoto attraverso cui gli oggetti si muovono o in cui stanno […]. L’uomo prende conoscenza del vuoto che lo circonda e gli conferisce una forma fisica e un’espressione. L’effetto di tale trasfigurazione, che innalza lo spazio nel segno delle emozioni, è la concezione di spazio. È la descrizione dell’interiore relazione dell’uomo con quello che lo circonda: testimonianza fisica dell’uomo delle realtà che gli si presentano, che giacciono intorno a lui e si trasformano. L’uomo allora realizza, per così dire, il suo stimolo ad accordarsi con il mondo, dare un’espressione grafica della sua posizione.4
Fin dalle epoche più remote è proprio nello spazio ancestrale della caverna, un vuoto occupato e preso in prestito alla natura per difendersi dalla stessa, che l’uomo sperimenta lo spazio e il suo permanere in esso. Lo misura con i piedi, con le braccia, con l’esperienza. Lo assimila e lo sfrutta, vuoto generatore di esperienze e di vita. Lo nobilita e lo sacralizza al contempo come vuoto-rifugio per la sua eternità e per affrontare il mistero della fine, sua unica certezza, la paura della morte. Con il progredire dell’esperienza e della tecnica, il vuoto viene sottratto alla natura: recuperato, scavato, con spazi intagliati nella terra che generano i primi insediamenti, ottenuti per asportazione della materia, plasmati nell’argilla stessa.5
E laddove una città cresce e si sviluppa nel tempo, un luogo preciso si svuota, compensando gli equilibri che regolano lo stato delle cose: le cave di materiale sfruttate per estrarre la materia prima con la quale costruire, oggi rappresentano il negativo della città cresciuta di lì a poco. Sono luoghi eccezionali, vuoti che al pari del costruito hanno la capacità di raccontare la medesima storia.6 A vuoto consumato corrisponde un vuoto restituito. L’uomo dunque non sarà più una specie tra le tante che si sottomette alle leggi della natura, ma l’essere capace di comprenderle e modificarle.
Ed è nella costruzione degli spazi sacri che l’uomo indaga fino in fondo l’idea di infinito, l’astrazione del vuoto, introducendo il concetto di continuità della vita anche dopo la morte. È interessante notare come i vuoti degli ambienti sepolcrali inizialmente riproducano in maniera schematica la grotta ancestrale, il primo rifugio e il ventre della terra a cui il corpo ritorna, fino ad assumere una tipologia caratteristica e precisa, divenendo vero e proprio fatto culturale. Le tombe etrusche sono vuoti scolpiti nel pieno tufaceo che assumono l’aspetto di abitazioni: lo spazio interno è generato da superfici modellate nella roccia, assumendo le sembianze di veri e propri ambienti domestici con soffitti travati e pareti arredate, ricreando con immediatezza la genuinità umana in cui l’amore coniugale, l’unione familiare, i piaceri della sensualità, i mobili e gli oggetti amati accompagnano il defunto nell’eternità tramite la continuità del quotidiano.
Le tombe a tholos7 sono un’importante esperienza costruttiva pensata e organizzata: lo spazio centrale a pianta circolare, che si sviluppa dopo un lungo corridoio di accesso scavato nella terra, è una tra le prime fondamentali opere in cui il vuoto viene costruito artificialmente, pietra su pietra, rispondendo a una precisa esigenza. Un vuoto perfettamente costruito, che ha il potere di trasportare i sensi in un ambito altro, attraversando il mistero della morte. Il vuoto sepolcrale e sacro seguirà un processo di monumentalizzazione continua e costante che porterà l’architettura ad assumere connotazioni sempre più evolute. Da semplici rifugi nascosti a architetture complesse, pieni scolpiti, esternamente riconoscibili, ma custodi di vuoti inaccessibili, se non a pochi eletti.
Il vuoto della piramide egiziana di Cheope costituisce solo una parte infinitesimale del totale del volume costruito8: un massiccio scrigno che proteggeva nell’eternità l’ambito privato del defunto, la sua immagine mitologica, prima ancora che storica, attraverso il tempo. La massa costruita attorno al mistico vuoto, che viene compresso, limitato e assorbito dalla materia, esprimeva il potere terreno della dinastia ed è uno dei massimi esempi che ci racconta dell’eterno bisogno degli uomini di creare simboli per le loro gesta e il loro destino, nella consapevole contrapposizione tra edificio astratto e l’ambiente, tra materia e vuoto, che rimane esterno, sfruttato per la migliore esaltazione dell’opera costruita.
Ogni epoca passata che abbia fatto maturare una vera vita culturale, ha avuto l’energia fisica e psichica di creare questi simboli, partendo dalla memoria, dalla mitizzazione dei propri defunti, fino ad arrivare alla mitizzazione della propria cultura e della propria realtà. Si pensi alla monumentalità del vuoto interno del Pantheon a Roma, che appare come teatro cosmico, la cui scenografia è il compatto e puro volume circoscritto dalla cupola e dal suo oculo aperto; uno spazio perfetto nel quale sono gli elementi naturali che lo completano, lo pervadono e riempiono: la luce, l’acqua, l’aria, il cielo, gli dei e solo poi l’uomo. Da quell’occhio “eternamente spalancato” nella sommità del vuoto delineato dalla cupola, permea lo spazio dell’universo.
Qualsiasi opera architettonica è caratterizzata da un vuoto ben calibrato e costruito mediante il pieno del muro che lo raccoglie, ne descrive il volume definendone i limiti. L’aggregazione di forme architettoniche e dei loro vuoti determinati genera un vuoto superiore, aperto e collettivo, un insieme che è molteplice: la città. Il vuoto urbano, nel quale si producono movimento e variazione costanti nel tempo e nello spazio, è generato artificialmente intervenendo sul genius-loci, lo spirito del luogo, l’immanenza del vuoto, che gli antichi riconobbero come quell’opposto con cui l’uomo deve scendere a patti per acquisire la possibilità di abitare. Le città si sviluppano, quindi, in un processo di magmatica composizione dello spazio attraverso pezzi di architettura che tra loro vengono messi in rapporto, generando vuoti funzionali nei quali la vita sociale e culturale comincia a svilupparsi e arricchirsi: nei vuoti definiti delle piazze, nelle agorà delle prime polis, si concentrano tutte le funzioni civiche urbane.
Questo sviluppo, inizialmente spontaneo, seguendo un processo di accumulazione senza schemi, diventa nel tempo frutto di logica e pianificazione, che plasma il vuoto secondo necessità ben precise, piegando la natura all’esigenza dell’uomo, definendo l’indefinito. Il vuoto urbano è pertanto misurato e conformato per divenire un molteplice scenario della vita pubblica, degli avvenimenti della città e, nel tempo, un ricco patrimonio collettivo. E nel tempo, l’evoluzione della città ha dovuto fare i conti con i propri limiti, legati al proprio passato, le proprie rivoluzioni, le proprie tragedie raccontate dai suoi pieni e nei suoi vuoti, sempre più spesso, vuoti che sono negazione, generati dalla distruzione dei bombardamenti delle più feroci guerre, vuoti che sono risultati di sviluppi incontrollati nei moderni processi di crescita delle città. A partire dalla metà del XIX secolo la moderna civiltà tecnico-industriale ha trasformato radicalmente le condizioni della convivenza umana e dunque dell’architettura che dà forma agli spazi in cui l’uomo agisce: lo sviluppo repentino e l’opulenza raggiunta da alcune città e da certe culture stravolte dal progresso e perseguitate da un horror vacui incombente, sono causa di un mutamento talvolta incontrollato; la crescita urbana, l’ostentata ripetitività della forma costruita, conseguenza dei nuovi vincoli a un ordine puramente meccanico di sistemi stradali, di traffico e di relazioni umane accelerate, ridimensionano lo spazio, rimodulano e definiscono il vuoto per compressione, per riduzione, per annullamento.
Le città, diventate metropoli e megalopoli, ingurgitano senza controllo il vuoto e trasformano la natura per accumulazione di necessità repentine, riducendo lo spazio così ricavato a totale risulta, disseminando ovunque non-luoghi. Spazi vuoti di significato e funzione. Vuoti talvolta spietati, inospitali, irrisolti, che causano degrado e abbandono e che sono specchio di una società massificata e consumista, obnubilata da interessi solo ed esclusivamente materiali, istantanei: “usa e getta”.
La “città che sale” porta inevitabilmente a manifestare tutte le proprie contraddizioni: il movimento, la rapidità, l’attraversamento del vuoto veloce, conducono paradossalmente alla congestione e alla paralisi. Pochi, ancora troppo pochi i tentativi oggi di recuperare spazio al vuoto, di ripristinare il giusto equilibrio tra pesi per ritornare a respirare e riflettere. Per poter vivere il momento completamente, in silenzio. Non si trova più spazio per l’indeterminato, c’è poco spazio per l’imprevisto e definire è sempre limitare: e fisso e immutabile sono termini che, se estremizzati, esprimono un arresto nello sviluppo. Per certe culture, infatti, il senso della totalità non deve mai perdersi:
La realtà di una stanza va ricercata nello spazio vuoto delimitato dal tetto e dalle pareti e non nel tetto e nelle pareti in sé. L’utilità di una brocca consiste nel vuoto nel quale l’acqua può essere versata e non nella forma della brocca. Il vuoto è onnipotente e contiene ogni cosa.9
La definizione di città e dell’architettura come “dimora del vuoto”, nella cultura orientale, porta al contrario alla sublimazione del vuoto che, oltre a comprendere il concetto taoista della totalità, include il valore dell’indefinito e dell’imperfetto: si lascia volutamente qualcosa di incompiuto affinché sia l’immaginazione, il proprio intimo, a completarlo. La casa, il tempio, la città non sono altro che un temporaneo rifugio per il corpo. Contemplando l’interno di un architettura che è dimora del vuoto, si sente come il proprio spirito possa vagare, assieme allo sguardo, con una fluidità maggiore e totale armonia accompagnati da un omogeneo silenzio.10
Nel riposo delle forme si permette che lo sguardo poi si posi in un’attitudine contemplativa, freni la propria condizione dinamica, e quando un’architettura ha la capacità di generare uno spazio di silenzi, porta a una percezione diversa della realtà, fondamentale per la crescita spirituale di chi la vive, dal momento che essa si offre al raccoglimento e alla comprensione delle sue dimensioni più nascoste. Il vuoto si presenta come una superficie sulla quale la vita risalta con semplicità, senza sovrastrutture e tutto si disvela, poiché l’apertura del proprio io a quella totalità indefinita, senza distrazioni, è piena. E questo vuoto è sempre centrifugo: il contatto diretto con l’esterno e la natura è fondamentale.
I perimetri delle architetture che delimitano senza comprimere il vuoto raccolto, che si strutturano leggeri attorno ad esso, si aprono, si muovono, creando una distanza, generando un vuoto in relazione ad altri, lasciando che l’immagine del paesaggio esterno penetri senza interferenze e possa agire sulla percezione di chi, in quel preciso istante, sta vivendo la propria esperienza.
Nella cultura Zen il vuoto non è considerato un concetto comprensibile attraverso il ragionamento, ma un’affermazione di un’intuizione e della percezione. La cultura orientale è un ricettacolo di mezzi toni e sfumature, di spazi vuoti che non vanno subito colmati ma goduti come sono, di un’infinità di arti, e tra queste l’architettura, che hanno come scopo, non solo il prodotto estetico, ma anche l’atto che arricchisce il rapporto intimo con l’uomo, con la natura, il rapporto con le cose, attraverso la vacuità, la sospensione, l’equilibrio: ogni arte è un pieno che traccia un vuoto e diviene esperienza totalizzante. L’esperienza del vuoto, della vacuità, richiede un’apertura completa del proprio sensoriale ottenibile mediante il totale abbandono percettivo del proprio corpo nello spazio.
Ci vuole intimità con il vuoto per sapere che niente va perduto, che il vuoto è creatore, informa, vibra, trasmette, accoglie, fa sentire a casa. Come in un insegnamento zen che invita a percepire prima il silenzio tra due note musicali, poi il silenzio tra le note stesse. Posso entrare in contatto non solo con il vuoto tra due pieni, tra me e te, ma anche con il vuoto di te, di me.11
Tutte le cose dipendono dal vuoto, una sorgente dalla quale possono sgorgare le acque del significato e in cui il tempo e la percezione del tempo possono modulare il loro ritmo, permettendo all’animo umano di fermarsi, di aprirsi consapevolmente alla comprensione del tutto, in quel ritiro solitario e contemplativo in equilibrio tra tangibile e intangibile. E allora il vuoto anche se invisibile è ciò che permette alle cose di farsi visibili. Il vuoto di uno spazio, qualsiasi spazio, può essere pieno: basta rimanere semplicemente in ascolto.
“Non ha nulla la mia capanna in primavera. Ha tutto.”12
1 Paul Valery, “Storia di Anfione”, in All’inizio era la favola. Scritti sul mito, Milano, Guerini e Associati, 2016.
2 Tito Lucrezio Caro, De rerum natura, I, 419-421.
3 “Di solito c’è l’infinito e c’è l’eternità. Di solito non c’è niente, perché se c’è l’infinito non c’è lo spazio, se c’è l’eternità, non c’è il tempo. Cioè di solito non c’è niente. Poi uno inventa uno spazio.” Ettore Sottsass, Per qualcuno può essere lo spazio, Milano, Adelphi, 2017, p.109.
4 Sigfried Giedion, L’eterno presente: le origini dell’arte, Milano, Feltrinelli, 1965, p. 86.
5 Sono un esempio gli insediamenti preistorici in Anatolia del sud o la città di Mersin in Siria.
6 Ogni città antica ha le proprie origini costruttive e materiche nelle sue prossimità ed è molto interessante scoprirne le fonti e come esse raccontino una storia parallela e connessa a quella della stessa città che hanno generato. Penso alle cave di pietra di Siracusa, utilizzate dai Greci per fondare la loro città, i cui vuoti vennero trasformati nel tempo in un luogo religioso, magico e rituale, divenuti poi luoghi di prigionia e agonia. Penso a quelle di tufo sparse in tutta la Tuscia, materiale utilizzato dagli Etruschi per costruire le proprie città, i cui vuoti vennero utilizzati poi come luoghi sacri e funebri. Penso a quelle di travertino di Tivoli: grandiose, alla pari della città imperiale che hanno generato.
7 La Tomba del tesoro di Atreo a Micene 1330 a.C. è una delle opere fondamentali dell’epoca micenea. Composta da un corridoio scoperto di 36 metri che penetra nella collina e termina davanti all’ingresso della tomba, una piccola porta che restringe la percezione durante il percorso e dilata l’impatto sensoriale una volta entrati nella sala centrale: una camera voltata in pietra megalitica di 14,5 metri di diametro.
8 Il volume di vuoto della piramide egiziana di Cheope, in rapporto al totale della massa costruita, è pari allo 0,082%.
9 Kakuzo Okakura, Lo zen e la cerimonia del tè, Milano, Feltrinelli, 2006, p.35.
10 “Fluidità è assenza di ostacoli: se la mente è libera non conosce ostacoli, inibizioni, impedimenti, e segue il suo corso come l’acqua, libera nel suo divenire.” Daisetz T. Suzuki, Lo zen e la cultura Giapponese, Milano, Adelphi, 2014, p. 127.
11 Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Torino, Einaudi, 2018, p. 122. Lasciare spazio intorno ai gesti, dargli una stanza, li fa brillare, permette che aprano un varco nell’oscurità in cui di solito viviamo nel nostro quotidiano sonno. Allora piano piano, si ricevono le visite della consapevolezza: sono i miracoli del noto.
12 Haiku di Yamaguchi Sodo (1642-1716). Un Haiku giapponese è definibile come “poesia del vuoto”, un componimento breve composto da tre versi, conciso e romanticamente spontaneo. Ha la purezza e il vuoto di una nota musicale capace di trasmettere sensazioni o emozioni immediate e improvvise.