Limite TTB

La necessità, l’orizzonte, il rischio e il limite

Tiziana Barbiero – Teatro tascabile di Bergamo

 

La parola “limite” è una parola chiave nel lavoro dell’attore: il teatro è arte dei confini. Ho scelto solo uno dei suoi molti sensi possibili, nel mio lavoro, e lo racconterò (non lo spiegherò, ma lo racconterò) attraverso nove immagini. Sono “immagini”, tra virgolette, cioè sono in realtà ricordi, racconti ripetuti, e anche concetti che per noi sono stati fondamentali. Sono nove snodi che hanno avuto un ruolo importante nella mia vita: sono quelle che sogno la notte, quando, come è consueto nel mio lavoro, vado a dormire troppo tardi, dopo aver mangiato una di quelle pizze indigeribili che spesso sono l’unica cosa che si trova, dopo lo spettacolo.

 

I – Teatro di Gruppo

Teatro di gruppo vuol dire: nessun limite di tempo stabilito per contratto. Come per l’amore che, quando nasce, è “per sempre”. Il teatro di gruppo, o “teatro laboratorio”, può essere anche definito così:

A partire dall’inizio del Novecento, è possibile rilevare una serie di teatri anomali, così cospicua che alcuni l’hanno considerata quasi un filone unitario, indicato in genere con termini quali “Teatri Laboratorio” o enclave, o teatri d’eccezione, o case del teatro. Ognuna di queste definizioni allude a una faccia particolare del fenomeno più specifica della generica definizione “di ricerca”, eppure instabile. Insufficiente. “Teatri Laboratorio” è dunque una formula che rimanda a qualcosa di molto più complesso di un problema storico. Rimanda all’esistenza di nuclei di convinzioni, di idee di teatro, di dichiarazioni di intenti. È una formula bandiera, ed è importante in quanto tale. Indica l’esistenza di un desiderio di patria o di casa nutrito da chi i Teatri Laboratorio li fa o li studia. I caratteri di questa casa o patria poi, di volta in volta cambiano.1

 

II – Noi chi siamo

Durante i primi anni di lavoro nel nostro teatro abbiamo seguito fedelmente la lezione di Eugenio Barba e Jerzy Grotowski. Dopo di che essendo i gruppi, per ragioni ovvie, formati da individui diversi, abbiamo sviluppato una nostra strada. Come le linee di rotta sulle carte geografiche degli aerei, tutte partono da Roma e poi incominciano a diramarsi. Dopo dieci centimetri queste linee, che alla partenza erano vicinissime, si dividono enormemente. Da noi è avvenuto lo stesso: abbiamo cominciato con un imprinting, ci siamo rifatti a alcuni Maestri, siamo andati avanti a lavorare e dopo un certo periodo abbiamo sviluppato una personalità (di gruppo) differente. Il progetto di ordine artistico che caratterizza il mio gruppo, ciò che avviene o che idealmente dovrebbe avvenire, è una sorta di lento processo di annullamento dell’io individuale in favore dell’opera artistica e del gruppo, ma anche, a seconda delle occasioni, in favore del gruppo e dell’opera artistica. Si mira a questo: il valore sta nell’opera artistica e non, come abitualmente accade nel mondo del teatro, in chi l’opera artistica la fa. Quello che conta è l’opera e non l’autore e ciò che quasi maniacalmente interessa è la perfezione. A noi interessa la perfezione dell’arte, un’ossessione del livello artistico in quanto tale ed è per questo, credo, che in modo quasi naturale abbiamo guardato a Oriente. Tutto il nostro interesse per l’India e per le diverse forme di teatro classico indiano è nato dall’avidità di tecniche precise, dal gusto per la perfezione, dal “bisogno” di perfezione. Poi ci siamo concentrati sulla qualità della vita di gruppo, sull’esistenza e sulla difesa della nostra microcultura, sul teatro come laboratorio in continua ricerca. Usiamo la pratica teatrale anche come via per il lavoro dell’essere umano su di sé, come strumento per esplorare la qualità delle relazioni fra individui. La trasmissione del sapere artistico e etico tra le differenti generazioni del gruppo è paragonabile a quella orale della musica classica indiana, si attua attraverso un lento processo di assorbimento della tecnica e dell’anima del Maestro. Per questo serve molto tempo. Il tempo è la sfida. La stella polare è il valore artistico. Il legame che unisce i componenti del gruppo è il valore del lavoro. Da queste premesse discendono una serie di ineludibili obblighi, che nel loro insieme portano a distruggere il confine tra arte e vita. Ma alcune domande restano in sospeso.

 

III – Febbraio 2004

Ad Ahmedabad, durante una tournée in India, mentre viene allestito lo spettacolo un attore prende fuoco. La drammaturgia prevede che nel finale alcuni grandi palloni gonfiati a elio vengano lasciati salire nel cielo dove poi scoppiano lasciando cadere sugli spettatori una pioggia di sottili petali di carta. Quando arrivano le bombole, su uno sgangherato e lurido carrettino di ferro, nessuno pensa di controllare il contenuto, di assicurarsi che sia effettivamente elio il gas dentro alle bombole, nonostante l’odore sia strano, pungente, acre. Una questione di pochi minuti, una scintilla e un boato. Vedo un attore correre, è una torcia umana, alcuni compagni lo inseguono, lo atterrano e lo spengono. L’attore che brucia è mio marito. Arriva veloce una macchina e poi c’è la corsa in ospedale. L’attore soffre terribilmente. Il direttore ha le lacrime agli occhi. Capisco che si sente responsabile di quel che è accaduto. L’attore viene sedato e ricoverato. Quando poco dopo lo rivediamo, il petto, le braccia, le mani e il capo sono completamente fasciati. Di lui vediamo solamente due enormi occhi che ci interrogano ma che indicano anche ciò che si “deve” fare. Il direttore è affranto, come tutti noi. Torna sul luogo dello spettacolo. Manca meno di un’ora all’inizio, serve provare una nuova struttura, rimettere in piedi lo spettacolo. È così importante fare una replica in più, è tanto importante da lasciare un compagno gravemente ustionato in un ospedale indiano? Si prova fino all’ultimo e all’ora stabilita si va in scena. Dopo ci troviamo tutti nella camera dell’ospedale. Silenzio, incredulità, senso di colpa e occhi lucidi. Il gruppo parte la mattina seguente, la tournèe deve continuare, altre città, altre piazze. Io invece resto e dopo una settimana porto l’attore, che ha subito una operazione chirurgica, a New Delhi. Lì ritroviamo i compagni e rientriamo in Italia. Qualche giorno dopo sappiamo che il direttore non sta bene, e quando lo rivediamo in teatro ha un enorme herpes zoster diffuso sul viso e sull’occhio sinistro. Lo indebolirà in modo definitivo per i pochi mesi che gli restano ancora da vivere. Il compagno ustionato si rimetterà completamente.

 

IV – Quel che il direttore ci raccontava sempre

Il nostro direttore ci raccontava sempre un aspetto del teatro Kathakali che è stato determinante per formare anche la nostra idea, quella del nostro gruppo, di cosa debba essere il teatro. Nel teatro Kathakali l’allievo impiega dieci anni di studio per diventare attore. Quando il Maestro lo ritiene pronto si prepara lo spettacolo. Allora l’attore entra nella sala del trucco che dura molte ore. Dopo di che, dopo tutte queste ore, indossa il costume, una cosa molto elaborata, e infine benedice e mette la corona. Quando sta per iniziare lo spettacolo passa finalmente in scena a fare il suo lavoro. Appena sta per comparire in scena, i suonatori incominciano a rullare i tamburi, due inservienti vanno davanti a lui e alzano un sipario fra gli attori e il pubblico. La danza ha inizio ma dietro il sipario, sicché gli spettatori non vedono niente di questa danza, che è fra le più belle del Kathakali. Il pubblico sente la musica, sente i piedi che battono dietro il sipario, ma non vede la danza. Quando la danza è finita (dura mediamente venti minuti) gli attori ritornano nel camerino, tolgono il costume e la corona e si detergono dal trucco. Per quella notte il lavoro è finito. Tanti anni di lavoro, di allenamenti, tanta preparazione prima di entrare in scena, e questa danza fatta solo per gli Dei.

 

V – Il rischio e la necessità

Qualche giorno dopo l’Atelier Internazionale sul Teatro di Gruppo, che si è tenuto a Bergamo nel 1977, organizzato da noi insieme a altri gruppi teatrali, il nostro regista aveva commentato le trenta ore di teatro non stop di chiusura. Da quelle riflessioni aveva tratto una lettera per i suoi attori, per il suo gruppo:

In un primo tempo, lo confesso, il senso di tutto questo, della maratona, mi era parso alquanto arduo da penetrare. L’idea mi era anzi sembrata, all’inizio, un eccesso persino un po’ volgare, un tentativo troppo sfacciato di “scandalizzare”. Ero stato confermato in questa idea dalla considerazione che il lavoro teatrale e gli spettacoli, che erano in realtà il senso e la motivazione di tutta l’emarginazione sofferta da tanti gruppi del Terzo Teatro, sarebbero stati gravemente, forse irreparabilmente compromessi dalla stanchezza, dal numero frastornante di spettacoli, dalla mancanza di pubblico. Solo in seguito ho intravisto un senso profondo. Quella giornata è stata il nostro stesso simbolo: era necessaria questa temperatura al calor bianco perché solo così, tutti noi che eravamo lì, potevamo mostrare a chi lo voleva e lo sceglieva, la nostra vera tempra. E cioè non l’aspetto avvertito, sapiente e guardingo, di chi è in tournèe o fa spettacolo: ma il momento della verità, quando, spogliati di tutto, riusciamo a rimanere noi stessi, a mantenerci fedeli, senza iattanza ma senza viltà, certi che le Indie continuamente inseguite appariranno un giorno davanti alla nostra prora […]. Estremo suggello simbolico, la maratona è avvenuta nel segno che ha informato l’intera concezione dell’Atelier, il segno del rischio e della necessità. Sempre il gioco era tenuto al limite, come nell’equilibrio precario che ci avevano mostrato i maestri d’Oriente. Sempre il gioco era tenuto al limite, sempre sull’orlo di un precipizio. La scommessa era che le forze dei partecipanti avrebbero retto, che i loro nervi avrebbero tenuto e che la loro personalità professionale, avrebbe vinto. Questa, mi accorgo, è stata la vera lezione dell’Atelier e il suo ammonimento: che non ha forza, mai, non ha vera necessità la vita del teatro che nasce concepita pigramente fra la veglia e il sonno, che essa non si acquista se non rischiando la propria vita individuale.

 

VI – Marzo-aprile 2005

Stiamo lavorando a uno spettacolo nuovo. Il direttore non sta bene. Da molti giorni, forse già da un mese. Anche se sfinito il direttore finisce il lavoro, anche se malato viene regolarmente alle prove. Nessuno ci fa più caso, ci sembra in fondo solo molto stanco, già da un anno, ormai, dall’episodio in India e dall’herpes. Il pomeriggio del 3 aprile, riceviamo una sua telefonata: non sta bene e non riesce a venire in teatro dove è già tutto pronto per lo spettacolo serale. Non era mai accaduto in tanti anni e dunque per noi ha dell’incredibile. Forse proprio per questo, dopo esserci consultati – è uno spettacolo di routine, che potremmo tranquillamente sospendere – decidiamo di istruire uno di noi perché possa sostituirlo. Lavoriamo in fretta, frenetici, convinti, motivati. Dopo qualche ora andiamo in scena. Nel frattempo, in quelle ore, il direttore è morto.

 

VII – Una storia raccontata da Eugenio Barba

Come ho detto, fin dagli inizi del nostro lavoro, Barba è stato per noi un punto di riferimento, un Maestro. In un suo libro ho trovato questa storia. Anche questa è una storia che ha condizionato il nostro modo di essere attori. E che ora mi pone domande molto diverse da quelle che mi poneva in passato:

Wojtek Wojszczerowicz era un vecchietto brutto, il viso incavato, la calvizie avanzata. Era polacco, attore. Aveva avuto un infarto, i dottori gli avevano ordinato di non recitare più. Aveva continuato. Gli venne un secondo infarto. I dottori gli sentenziarono una morte immediata, se fosse risalito sul palcoscenico. Si ostinò: due volte la settimana era Riccardo III. Coperto da una pesante armatura, il passo strascicato, come oppresso dall’ambizione e da un segreto nascosto, riempiva la scena legando noi tutti spettatori in un silenzio stupefatto, in questa sala teatrale ricostruita sulle macerie della guerra ripetendo i modelli di una società ormai svanita. Doveva cominciare a prepararsi due giorni prima. Erano i giorni di una sola leggera minestrina e di un bicchiere d’acqua. E camminava avanti e indietro nella sua stanza, in continuazione come per rassicurare il suo corpo: ce la faremo. Il giorno dello spettacolo era il giorno del digiuno assoluto, per non aggravare lo stomaco. Alle tre del pomeriggio usciva di casa e si avviava a piedi al teatro. Abitava in periferia: con un’andatura che non cedeva, si dirigeva verso il centro, mormorando tutte le battute del suo ruolo. La gente lo vedeva passare un po’ curvo, già con il passo strascicato ma tenace: “un ubriaco, un demente”. Poi rivestiva la sua armatura, ed erano le ore dove tutto il tempo scrutava al di sopra delle teste degli spettatori, verso l’alto, quasi volesse scoprire – in un’opposizione inutile – la morte che l’avrebbe potuto prendere in ogni momento.2

 

VIII – Settembre 2017

In questi ultimi dodici anni abbiamo creato nuove opere e portato avanti il teatro senza il nostro direttore, che ora sostituisco nella regia degli spettacoli. L’ultimo è, da molti punti di vista, una sorta di biografia del gruppo, soprattutto di alcuni dei suoi componenti più anziani, e in particolare dell’attore protagonista. Dopo un anno dalla prima dello spettacolo, l’attore protagonista si ammala. Morbo di Parkinson. All’inizio la malattia si manifesta attraverso il tremore di una mano. Per qualche tempo non dico nulla, cerco di capire. Ma poi decido che non funziona, che il personaggio interpretato dall’attore non può essere un uomo ammalato. Ci parliamo, io e l’attore. Lavoriamo da tanti anni insieme, e insieme abbiamo affrontato le difficoltà del nostro mestiere e del nostro teatro. Decidiamo di sperimentare nuove vie per vedere se è possibile nascondere la malattia. Ci accorgiamo che quando il braccio e la mano agiscono, quando vengono volontariamente messi in movimento o quando maneggiano un oggetto, il tremore cessa. Dunque cominciamo a lavorare, in alcuni momenti costruendo una “danza delle braccia”, in altri lavorando con un piccolo rosario orientale di cui l’attore deve contare i grani. “Danza e prega, prega e danza – non dimenticare mai questi due compiti.” Non è facile inserire queste novità in uno spettacolo ormai già definito. Non è facile riprendere continuamente questo lavoro, anche dopo che lo spettacolo è stato rappresentato molte volte, quando si vorrebbe solo gustare il piacere di lasciarsi ormai andare, senza l’assillo di dover restare fedeli alle azioni fisiche, superando quello che in teatro chiamiamo “il limite della tecnica”. Perciò spesso l’attore si lascia trasportare da questo piacere, dimentica i compiti fisici e il tremore riappare. Io intervengo, non mollo. L’attore si deprime, si irrita, si ribella. Io tengo duro e non lascio trasparire la mia incertezza interiore.

 

IX – Il limite

Limite: stessa linea dell’orizzonte.

 


1 Mirella Schino, “La corsa della Regina Rossa”, Teatro e Storia, n. 26, 2006.
2 Eugenio Barba, Il libro dell’Odin, Milano, Feltrinelli, 1975.

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