Limite Valtellina

Liminalità: betwixt and between

Enrico Valtellina

 

Il limite chiama una topologia, non sempre la stessa, si dà come “linea”, come nel noto dialogo a distanza tra Martin Heidegger e Ernst Jünger sulla linea1, fronte del nichilismo compiutamente dispiegato, nell’istante della sua “trasgressione”, momento che del limite stesso è costitutivo, nell’analisi foucaultiana dell’opera di Georges Bataille2, nella forma del ritaglio, della “delimitazione” dello spazio “sacro”, nel secondo volume della Filosofia delle forme simboliche3 di Ernst Cassirer. La forma del limite di cui andremo a occuparci è differente, pur evocando a volte le topologie citate: è il frammezzo, lo spazio “liminare” tra il non più e il non ancora. La nozione di “liminalità” rimanda a un testo del 1909 dell’antropologo Arnold van Gennep sui riti di passaggio.4 Impegnato nello studio sistematico delle pratiche rituali, raccogliendo e organizzando il lavoro degli antropologi che lo hanno preceduto, van Gennep ne individua le forme specifiche e coglie una dinamica invariante nello strutturarsi dei riti di passaggio secondo tre momenti distinti: “Propongo conseguentemente di nominare riti preliminari i riti di separazione dal mondo anteriore, riti liminari i riti posti in atto durante lo stadio di margine e riti postliminari i riti di aggregazione al nuovo mondo.”5 Dunque una struttura costante che si articola in tre momenti: la separazione, il frammezzo e il ricongiungimento. Nella sostanza, si danno nel rito di passaggio due soglie, due limiti che segnano l’uscita da uno stato e l’ingresso nel successivo, e uno spazio liminare, un margine in cui il protagonista del rito vive una doppia sospensione. A un tempo non appartiene più allo stato precedente e non ancora al successivo, propriamente, come il gatto di Schroedinger, si trova in una condizione di ambivalenza assoluta, né vivo, né morto, né qualcosa di definito, né nulla. Qualche considerazione su tale margine liminare in relazione alla sua ambivalenza e al sacro.

Per tutta la durata del noviziato, i legami ordinari, tanto economici quanto giuridici, sono modificati, a volte nettamente interrotti. I novizi sono fuori dalla società, e la società non può niente su di loro, in quanto sono propriamente sacri e santi, e di conseguenza intoccabili, pericolosi, esattamente come se fossero Dei. Così benché i tabù, in quanto riti negativi, stabiliscano una barriera tra i novizi e il resto della società, per altro questa rimane senza difesa contro le imprese dei novizi. Ciò spiega nel modo più semplice un fatto che è stato rilevato in molte popolazioni e che rimane incomprensibile agli osservatori. Ovvero che durante il noviziato, i giovani possono rubare e predare secondo la loro volontà, o nutrirsi e adornarsi a spese della comunità.6

Nella fenomenologia del sacro, sviluppata nel secondo volume della Filosofia delle forme simboliche di Cassirer, uno dei temi portanti è la costituzione della relazione al sacro attraverso una sua delimitazione, lo spazio sacro è marcato nei suoi confini, ciò per preservarne l’alterità dal mondo secolare. All’interno dello spazio sacro è sospesa ogni regola mondana, si dà come alterità radicale, alterità che del sacro stesso costituisce il carattere fondamentale, “Ganz Andere”, nei termini di Rudolf Otto.7 Questa portante del sacro si ritrova nella dimensione temporale del frammezzo rituale, segna i soggetti del rito. Il lavoro di van Gennep è rimasto ai margini della tradizione antropologica francese, osteggiato al tempo della sua produzione dalla scuola di Durkheim. Solo con il suo recupero da parte di Claude Levi-Strauss, e sull’onda della fortuna di questi, tornò a incidere nella produzione teorica internazionale con la traduzione inglese, nel 1960, del libro sui riti di passaggio.

Il secondo nome proprio cui è legato il discorso sulla liminalità è Victor Turner, a sua volta antropologo, cui si deve la proliferazione successiva del termine e del concetto. Il suo primo testo a tema, riesumato anche come sottotitolo di questo articoletto, “Betwixt and Between: The Liminal Period in Rites of Passage” (“Nel frammezzo: Il periodo liminale nei riti di passaggio”), è un capitolo di The Forest of Symbols8 (La foresta dei simboli), dedicato ai rituali Ndembu. Riprende van Gennep, spostando la prospettiva da quella originaria, strutturale e funzionalista, a una processuale, inoltre accenna a valenze ulteriori del concetto di liminalità, spingendo i limiti della condizione liminale oltre l’interpretazione dei riti di passaggio in ambiti culturali ristretti. La sua ripresa del concetto di liminalità si sofferma sulla dimensione simbolica, essendo il tema del libro. Vediamo come si caratterizza nella sua analisi chi vive la condizione.

Il simbolismo collegato alle persone in stato liminale è complesso e bizzarro. […] [La loro] “invisibilità” strutturale presenta un doppio carattere. A un tempo non sono più classificate e non lo sono ancora. Per quanto non sono più classificate, i simboli che li rappresentano sono, in molte società, tratti dalla biologia di morte, decomposizione, catabolismo e altri processi fisici con una caratterizzazione negativa, come le mestruazioni (spesso viste come assenza o perdita del feto). Così, in alcuni riti di iniziazione, i ragazzi appena circoncisi sono esplicitamente assimilati a donne mestruate. In quanto il novizio è strutturalmente “morto”, viene trattato per un periodo più o meno lungo come viene trattato un cadavere dalla società in cui vive. L’iniziando può essere sepolto, costretto a stare immobile nella postura e direzione usuale per i funerali, può essere dipinto di nero, o costretto a vivere per un lasso di tempo in compagnia di figuranti mascherati in fogge mostruose, che rappresentano, tra l’altro, i morti, o peggio, i non morti. La metafora della dissoluzione viene spesso applicata ai neofiti, gli è permesso di essere sudici e vengono identificati con la terra, la materia generalizzata a cui tutti gli individui devono tornare. Qui la forma particolare viene riportata al generale, spesso perdono i nomi propri e vengono individuati unicamente con i termini generici di “neofita” o “iniziando”.9

Per ciò che riguarda la caratterizzazione di genere “[s]ono a livello simbolico o asessuati o bisessuali, e possono essere visti come una specie di prima materia umana – un materiale grezzo indifferenziato.”10

Concludiamo la ricognizione di Turner della condizione liminale vedendo le appartenenze dell’iniziando.

Una ulteriore caratteristica negativa strutturale degli esseri in transizione, è che non hanno niente. Non hanno status, proprietà, insegne, abiti secolari, collocazione sociale, posizione familiare, alcunché li possa distinguere dagli altri nella medesima situazione. La loro condizione è indubbiamente il prototipo puro della povertà sacra.11

Un testo successivo di Turner, “Liminal to Liminoid, in Play, Flow and Ritual: an essay in comparative symbology”12, riprende il tema della liminalità e lo rilancia oltre la dimensione del rito, cercandone le forme nelle società complesse contemporanee, e individua nella categoria del “liminoide” i momenti del tempo altro che interrompono i flussi della vita ordinaria, questa volta non più in relazione al sacro, ma al tempo libero. Dalle sue analisi sono proliferate ricerche sul turismo, sugli sport come esperienze para-liminali, “liminoidi”, in consonanza con gli spazi eterotopici di Foucault e i non luoghi di Marc Augé, cose interessanti, ma che finiscono per occultare le valenze originarie che avevano motivato l’elaborazione del discorso sul tempo interstiziale, la liminalità come frammezzo nei rituali di passaggio.

Vengo ora a tematizzare l’origine della mia attenzione per il concetto di liminalità. Lo scorso anno ho tradotto un libro di un antropologo americano importante, Robert Murphy, The body silent.13 Direttore del dipartimento di antropologia alla Columbia University, giunto cinquantenne al culmine di una brillante carriera accademica, a seguito dell’approfondimento diagnostico di semplici parestesie, scopre di essere affetto da un tumore spinale a crescita lenta, benigno ma non operabile, che in quindici anni lo porterà progressivamente dalla piena efficienza fisica alla tetraplegia e poi alla morte. Nel tempo della progressione della malattia elabora un’analisi della sua condizione di persona disabile utilizzando gli strumenti teorici della ricerca sul campo in antropologia. L’esito è un testo straordinario in cui l’esperienza individuale diviene rappresentazione paradigmatica delle situazioni di vita esperite dalle persone con disabilità fisiche. Cercando un inquadramento teorico della situazione disabile in grado di sottrarsi ai limiti della sua interpretazione in quanto “devianza”, scostandosi quindi dall’orizzonte in cui la collocava Stigma14 di Erving Goffman, propone esattamente il recupero della nozione di “liminalità”.

Abbiamo trattato la disabilità come una forma di liminalità […]. È durante la fase di transizione dall’isolamento all’emergenza che la persona viene detta in uno stato liminale, una specie di limbo sociale in cui viene lasciato al margine del sistema sociale formale. […] Il titolo di uno dei suoi saggi, Betwixt and Between, in realtà è una descrizione accurata della posizione ambigua dei disabili in America. Le persone compromesse fisicamente per lungo tempo non sono né malati né sani, né morti né pienamente vivi, né fuori dalla società, né totalmente partecipi. Sono esseri umani, ma i loro corpi sono deformati o malfunzionanti, lasciando nel dubbio la loro piena umanità. Non sono malati, perché la malattia è transizione verso la morte o la guarigione. In effetti, la malattia è un ottimo esempio di una condizione liminale non cerimoniale e non religiosa. Il malato vive in uno stato di sospensione sociale, fino a che non sta meglio. I disabili passano la vita in un simile stato di sospensione. Non sono né carne né pesce, esistono in parziale isolamento dalla società come persone ambigue, indefinite.15

La loro condizione sfida la norma abilista, collocandosi al di fuori dell’ambito simbolico d’ordine e purezza studiato da Mary Douglas in Purity and Danger16, per cui vengono a caricarsi di una serie di connotazioni negative, secondo il tipo e la gravità della compromissione. L’indeterminatezza della loro condizione, l’ambiguità del loro stato, viene vissuta dalle persone abili come una minaccia da esorcizzare, esattamente come accade ai novizi nei riti di passaggio, e ciò senza che si dia la possibilità di un rito di riaggregazione che ponga fine all’indeterminatezza.

Nelle società semplici, primitive, gli iniziati ai riti di pubertà possono essere sequestrati per settimane, mesi o addirittura anni, una rimozione che nelle società moderne, complesse, è sostituito da pratiche miti come il catechismo dopo-scuola e la luna di miele. Una forma di gran lunga più grave di isolamento avviene con il confinamento dei disabili in ospedali e case di cura, o a causa della loro incapacità a lasciare le loro abitazioni per barriere fisiche di cordoli, gradini, e trasporti pubblici inaccessibili. Ci sono altri paralleli sorprendenti tra i disabili e gli iniziati. Turner scrive che “tra istruttori e neofiti vi è spesso completa autorità e completa sottomissione, tra i neofiti c’è spesso completa uguaglianza” (Turner, 1974, p. 99). Ciò descrive adeguatamente il ruolo autoritario e tutelare del personale medico, che asseconda nei reparti di riabilitazione il ruolo che spetta agli anziani delle tribù. L’uguaglianza dei neofiti è altresì presente. Gli ospedali spogliano le persone delle loro identità precedenti e li riducono alla condizione amorfa di “pazienti”, e chi ha trascorso lunghi periodi in questi istituti sa che i pazienti di solito interagiscono come uguali, ignorando reciprocamente le distinzioni sociali precedenti.17

La condizione di radicale ambiguità colta da Turner negli stati liminali, appare a Murphy pienamente espressa nella disabilità, è più che una devianza, è uno stato altro di sospensione radicale di gran parte di ciò che costituisce lo specifico dell’umano. Ne seguono la negazione dei diritti basici di accesso alla fruizione dei diritti elementari, l’esclusione dal godimento di beni sociali, la denegazione radicale della sessualità e il depotenziamento di ogni espressione dell’identità: “Le persone disabili sono più che devianti. Sono il controcanto della vita quotidiana”.18 Murphy non lo tematizza, ma anche le disabilità, nella storia e in quasi ogni ambito culturale, in quanto deviazione dall’ordine del cosmo, è legata al sacro, dimensione che corrobora ulteriormente l’inscrizione nel liminare come descritto da van Gennep e Turner.

Il discorso sulla liminalità nelle società complesse si presta a ulteriori analisi; per quanto spazio resta al presente testo, voglio provare a raccordare alcune suggestioni da letture non immediatamente legate al tema e all’antropologia. Nel primo testo importante di Michel Foucault, Histoire de la folie à l’age classique19, a proposito della relazione alla follia nel Medioevo, parla della “stultifera navis”, la nave dei folli, per un verso rappresentazione simbolica della condizione di chi perde il lume della ragione, per altro traccia della pratica reale di affidare alle vie fluviali i folli per liberarne la città.

Questa navigazione del pazzo è nello stesso tempo la separazione rigorosa e l’assoluto Passaggio. In un certo senso, essa non fa che sviluppare, lungo tutta una geografia semi-reale e semi-immaginaria, la situazione “liminare” del folle all’orizzonte dell’inquietudine dell’uomo medievale; situazione insieme simbolizzata e realizzata dal privilegio che ha il folle di essere “rinchiuso” alle “porte” della città: la sua esclusione deve racchiuderlo; se egli non può e non deve avere altra prigione che la “soglia” stessa, lo si trattiene sul luogo di passaggio. È posto all’interno dell’esterno e viceversa. Posizione altamente simbolica, che resterà senza dubbio sua fino ai nostri giorni, qualora si ammetta che ciò che fu un tempo la fortezza visibile dell’ordine è diventato ora il castello della nostra coscienza.20

Quello che di questo passo mi torna interessante è il rapporto tra la nave e l’alterità, la liminalità del viaggio in nave del folle, evidentemente altro dallo stato liminoide del crocerista per svago. Un rito di passaggio a tutti gli effetti, anche se senza mutamento di stato. Altro spunto è la ripresa di Giorgio Agamben21 della categoria giuridica romana dell’homo sacer. Anche qui si è di fronte a una situazione eminentemente liminale. Il reo, che ha commesso un atto mettendo in questione il patto tra gli dei e gli uomini e che si colloca fuori dalla sfera del giudizio umano, è di fatto espulso dal mondo sociale: la sua sorte è affidata agli dei, è ridotto a “nuda vita”, chi lo uccide non è passibile di condanna.

Un’ultima lettura recente raccorda i due spunti precedenti, si tratta di un libro straordinariamente ricco di Olivier Fabrice Dubosc, Approdi e naufragi: Resistenza culturale e lavoro del lutto22, in cui l’autore segue lo sviluppo di una molteplicità di trame, dalla tratta degli schiavi alle migrazioni contemporanee.

Sintesi di queste suggestioni è pensare come condizione liminare, rito di passaggio, senza alcuna garanzia di un conclusivo rito riparativo, di reintegrazione, il trasbordo da una riva all’altra del Mediterraneo di chi fugge condizioni di vita non sostenibili o legittimamente ambisce a un’esistenza non di sussistenza. Si ritrovano qui tutte le condizioni che caratterizzano lo stato liminale di van Gennep e Turner, la sospensione tra due stati di vita (sospensione che spesso si cronicizza nello stato di doppia assenza di cui parla Abdelmalek Sayad23, assenza dal mondo lasciato alle spalle e non integrazione in quello in cui ci si è proiettati), contaminazione col sacro, nei termini dell’“homo sacer”, nuda vita, la cui soppressione non è mai, di fatto, condannata, omologazione con gli altri neofiti, tanto che nessuno si spinge oltre il contarne il numero, di quelli sbarcati o annegati. Come la disabilità, anche quest’altra condizione liminale porta a considerare la relazione all’umano in termini radicali, e per quanto riguarda la risposta istituzionale alle migrazioni, temo che sia in tutto simile a quella toccata alle persone disabili durante il nazismo, ogni tempo ha le sue liminalità da eliminare.

 


1 Si veda Martin Heidegger, Ernst Jünger, Oltre la linea, Milano, Adelphi, 1989.
2 Si veda Michel Foucault, Prefazione alla trasgressione, in Scritti Letterari, Milano, Feltrinelli, 1996.
3 Ernst Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. II, Firenze, La Nuova Italia, 1964.
4 Arnold van Gennep, Les rites de passage, Paris, Émile Nourry, 1909.
5  Ivi, p. 30.
6 Ivi, p. 120.
7 Rudolf Otto, Il sacro, Milano, Feltrinelli, 1994.
8 Victor Turner, The Forest of Symbols: Aspects of Ndembu Ritual, Ithaca/New York, Cornell University Press, 1967.
9 Ivi, p. 96.
10 Ivi, p. 98.
11 Ivi, pp. 98-99.
12 Victor Turner, “Liminal to Liminoid, in Play, Flow and Ritual: an essay in comparative symbology”, Rice Institute Pamphlet – Rice Unversity Studies, 60, n. 3, 1974.
13 Robert Murphy, The Body Silent, New York, Henry Holt, 1987.
14 Erving Goffman, Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity, Upper Saddle River (NJ), Prentice Hall, 1963.
15 R. Murphy, op. cit., p. 131. Traduzione dell’autore.
16 Mary Douglas, Purity and Danger, London, Routledge, 1984.
17 R. Murphy, op. cit., p. 133. Traduzione dell’autore.
18 Ivi, p. 135. Traduzione dell’autore.
19 Michel Foucault, Histoire de la folie à l’age classique, Paris, Gallimard 1963.
20 Ivi, p. 22. Traduzione dell’autore.
21 Giorgio Agamben, Homo sacer, Torino, Einaudi, 1995.
22 Olivier Fabrice Dubosc, Approdi e naufragi: Resistenza culturale e lavoro del lutto, Tracce per una psicologia post-coloniale, Bergamo, Moretti & Vitali, 2016.
23 Abdelmalek Sayad, La doppia assenza: Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Milano, Raffaello Cortina, 2002.

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