Mimmo Gianneri

Lo scorrere delle cose. Appunti sul palesarsi del vento al cinema

Lo stupore dei primi spettatori del cinematografo Lumière non è tanto per un’inaspettata riproposizione fedele della realtà, quanto per l’emergere di una “rappresentazione del reale” che rielabora e riformula la nostra percezione quotidiana: “il cinema come medium riesce nella mediazione tra l’esibizione bruta delle cose e la messa in forma dell’esperienza”1, scrive Guglielmo Pescatore, riprendendo il teorico Louis Delluc. Il cinematografo, infatti, annulla e supera le più innovative esperienze pittoriche, come quelle dell’impressionismo, in particolare nella rappresentazione dei fenomeni atmosferici: “I primi spettatori apprezzarono la visione delle onde che si infrangevano e degli alberi mossi dal vento”.2 Tra questi, il vento, oggetto del presente breve excursus, risulta meritevole di attenzione, tanto più perché di rado è stato protagonista negli studi specialistici di cinema. Eppure, il vento interroga le forme della messinscena cinematografica e si rivolge alla sua esperienza. Il vento, infatti, come il cinema, è “movimento puro”. Fischia, spira, soffia, tira, aleggia… Nella nostra esperienza di mondo il vento si appella ad altri sensi, rispetto alla vista: si può annusare, sentire sulla pelle, ascoltare. Nel cinema, invece, è difficilmente visualizzabile e lo si percepisce solo negli effetti che produce, visivi (foglie e alberi smossi, cappelli volanti, balle di fieno che roteano sull’orizzonte della pianura, piccole increspature sul dettaglio placido dell’acqua del fiume…) e, anni dopo, sonori (il boato del moto delle onde smosse al mare, il soffio che ulula lungo il canyon…).

Nel cinema muto ancora “policentrico” – ovvero senza il successivo linguaggio istituzionalizzato, in cui lo sguardo dello spettatore sarà guidato nella visione tramite una storia e precise strategie retoriche – il vento è parte di una messinscena dove i corpi si muovono assieme alle cose e al paesaggio; in cui l’immagine va letta nel suo insieme. Così è il cinema di Buster Keaton: un tapino combatte incessantemente contro eventi rovinosi e immensi che lo sovrastano e su cui egli svetta per inventiva e capacità di sopravvivere. In Io… e il ciclone (1928) il personaggio interpretato da Keaton capita nel mezzo di una furiosa tempesta e cerca ostinatamente di correre controvento, ruzzolando e incespicando, mettendo in scena una sfida spettacolosa, impari e fallimentare.

Con il progressivo affermarsi del modello hollywoodiano narrativo e, soprattutto, il passaggio al sonoro, il linguaggio del cinema acquisisce linearità e leggibilità, a scapito in parte della “pittoricità” precedente, dove ogni elemento del quadro tendeva a interagire e parlare con e agli altri. Il cinema diviene sempre più antropocentrico: l’inquadratura ruota attorno al personaggio, alla star. La figura umana è motore dell’azione e suo centro nevralgico. Il cinema classico hollywoodiano è un cinema “verbocentrico”: la voce concentra tutta l’attenzione sonora così come la figura umana concentra tutta l’attenzione visiva. L’essenziale, nel cinema verbocentrico, è che il parlato sia chiaro e comprensibile. A differenza che nella realtà, parole indecifrabili e afasie sono molto rare. Nel cinema sonoro narrativo, così, il vento diventa fin da subito un effetto sonoro, che in prima battuta colloca i personaggi in un dato paesaggio. A fini drammaturgici, è poi un buon escamotage per costringere i personaggi a spostarsi, ripararsi o stringersi in un abbraccio. Altrove, invece, il vento sale impetuoso anticipando metaforicamente il tono melodrammatico della pellicola, come nel celebre epilogo di Come le foglie al vento (1956) di Douglas Sirk. O, ancora, dona epicità ai duelli al sole del deserto nel cinema western.

Il palesarsi in primo piano del suono e dell’azione del vento non può che avere una forza sinistra in un cinema incentrato attorno alla intelligibilità della parola e alla linearità dell’azione narrativa. Così, forse non a caso, Il mago di Oz (Victor Fleming, 1939) – superproduzione MGM a colori e film fantasy seminale – è segnato proprio dall’arrivo di un ciclone che spazza via ogni grigiore dalla vita della protagonista Doroty trasportandola con tutta la sua casa in un mondo fantasmagorico in Technicolor…

Il vento oppone all’esattezza della vista l’imperscrutabilità degli altri sensi. Pone delle domande ai personaggi e agli spettatori: da dove viene? Perché proprio adesso? Ululato inquietante nel cinema horror, rombo prossimo che induce all’azione impavida l’eroe nel film d’avventura, eco di sentimenti dicotomici nel cinema melodrammatico, il vento nel cinema sonoro oscilla tra il rumore d’ambiente, funzionale a disporre l’azione in uno spazio e un tempo coerenti, una presenza metaforica e una impositiva, quando prescrive svolte narrative e talvolta una rottura delle convenzioni.

A partire dagli anni Cinquanta, si cominciano a mettere in discussione le consuetudini linguistiche e ideologiche del cinema precedente, nasce il cosiddetto cinema moderno. Qui, il vento, svincolato da una drammaturgia votata alla piena chiarezza e comprensibilità, riacquisisce il potere ontologico del cinema delle origini: appare di nuovo, qua e là, come movimento puro e, come tale, replica il procedere stesso del cinema alla ricerca di forme nuove per rappresentare la realtà. Come in certe lunghe inquadrature senza stacchi di Andrej Tarkovskij, la macchina da presa è ora libera di muoversi. I suoi spostamenti non sono più solo subordinati a quelli dei personaggi (li segue negli spostamenti, nelle azioni, nel parlato), ma divengono anche “movimenti liberi”, come il soffio del vento. La macchina da presa mostra lo sguardo di un autore che si muove nel paesaggio e nella messinscena, interrogandola insieme allo spettatore. Ne L’avventura (1960) di Michelangelo Antonioni, il vento che spazza, violento, l’isolotto di Lisca Bianca sembra replicare lo sguardo perso dei personaggi in cerca di Anna, appena scomparsa misteriosamente. Insieme a loro, lo spettatore si muove con lo sguardo ondivago della macchina da presa sull’isola, mentre il suo occhio “non segue ordinatamente gli eventi, ma fluttua nel tentativo di comprenderli”.3

Nel cinema italiano, Federico Fellini è stato notoriamente il regista nei cui film il vento è divenuto una marca stilistica. Ora figura salvifica, ora elemento disturbante, ora respiro autobiografico o voce dell’inconscio il vento nel suo cinema si fregia di un aggettivo, felliniano.4

Ma una storia del vento nel cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta è di là da scrivere. Tutta la grande stagione del nostro cinema registra la presenza ricorsiva del suono e dell’azione del vento, in generi e autori diversi tra loro. Innanzitutto, in un cinema di enorme inventiva e frequenti ristrettezze economiche, il suono del vento favorisce la costruzione di mitologie altrimenti difficili da rendere efficacemente sul territorio italiano. All’inizio dello spaghetti western La resa dei conti (Sergio Sollima, 1966) il vento sibila nel bosco dove si trovano i personaggi, in attesa della prima sparatoria. Non potendo garantire complesse, e ancorché costose, inquadrature di contesto su paesaggi morfologicamente molto distanti dall’ambientazione tipica del western, è il suono a ridisegnare un orizzonte ampio e stereotipico in cui dare l’impressione del dove siano collocati i personaggi: non è la natura imponente del Nord-America, ma così echeggia. Negli esempi più celebri, poi, il vento gioca con gli altri componenti della messinscena e diventa con i rumori e le immagini una materia plastica in mano all’autore: Sergio Leone gioca abilmente con i suoni d’ambiente, di concerto con le musiche di Ennio Morricone, per fondare un mito rinnovato e sperimentare soluzioni linguistiche antinaturalistiche. Il massacro della famiglia McBain in C’era una volta il west (Sergio Leone, 1968) avviene in un crescendo drammatico nel quale i colpi di pistola interrompono improvvisamente il frinire delle cicale, prima che il vento salga di tono introducendo le note solenni del compositore. Il vento sgombra il campo da ogni speranza, si frappone alle grida, di lì a poco coprirà di sabbia i corpi esangui.

Se nei grandi autori del nostro cinema consegnati all’immaginario, da Antonioni a Fellini, a Leone, le scelte estetiche e linguistiche sono riconosciute universalmente come innovative, meno attenzione è stata posta in tanto cinema popolare coevo in cui il vento assurge a figura significante, assumendo toni e funzioni tipiche di una stagione di rinnovamento. Il vento rappresenta uno strumento fervido di dialogo tra il paesaggio – che esiste nel profilmico; è lì, pronto ad essere filmato – e l’autore che lo plasma e lo fa suo, interrogandolo o riscrivendone la fisionomia. Per questo forse soffia così di frequente proprio in un’epoca dove mai come prima (e mai più in seguito) il cinema italiano è sintonizzato con lo spirito del tempo. Il riconoscibile “vento all’italiana”, per esempio, sferza senza posa uomini e città durante lo svolgersi delle vicende de Il giudizio universale (Vittorio De Sica, 1961): tante piccole esistenze quotidiane si intrecciano mentre dal cielo una voce minaccia l’arrivo della fine dei tempi. Pochi film coevi al pari de Il giudizio universale sintetizzano meglio la tendenza in corso sugli schermi italiani nell’utilizzo chiave di questa figura. Il vento “della modernità” ha il portato di un evento prossimo dal carattere improvviso, inevitabile, destrutturante e incognito. Con toni positivi, melanconici, disillusi o catastrofici, sono numerose ed eterogenee le pellicole italiane del periodo che intercettano, al suono di raffiche o leggeri sospiri, l’idea del mutamento in atto: da lontano, si sta avvicinando qualcosa e alcuni vi si abbandonano, sconsolati, altri vi si scagliano invece contro. Così fa Esterina (Carlo Lizzani, 1959): all’inizio del film, sulle note di Domenico Modugno (Una testa, piena di sogni…) una giovane ragazza di campagna, già tanto moderna e cittadina nei modi e nell’approccio alla vita, corre in bici controvento sfidando gioiosa ogni resistenza atmosferica con la sfrontatezza che i giovani del boom paleseranno da lì a poco.

Insomma il cinema italiano, durante il suo periodo maggiormente creativo, mostra come la messinscena dell’esperienza sinestetica del vento chiami spesso in causa un’idea di cinema innovativa e manifesti l’impazienza di scovare nuove forme di rappresentazione e di percezione del reale. Ma se provassimo a traslare questo approccio, con un salto impervio di qualche decennio, nel cinema italiano contemporaneo? Sarebbe davvero difficile, escludendo i documentari, scovare delle configurazioni linguistiche dove il vento si erga a figura parimenti significante. Nel cinema italiano di oggi esso rimane quasi sempre sullo sfondo delle ambientazioni, a mo’ di affresco, di colore, di suono aggiunto in serie in fase di postproduzione.

Che sia diventato solo una metafora del cambiamento – Il vento fa il suo giro (Giorgio Diritti, 2005), Veloce come il vento (Matteo Rovere, 2016) – laddove prima lo incarnava? Se la sua assenza rappresenti oggi un sintomo di “bonaccia” nei processi di continua ridefinizione identitaria del nostro cinema è una domanda che rimane per ora aperta.

di MIMMO GIANNERI


1 Guglielmo Pescatore, L’ombra dell’autore. Teoria e storia dell’autore cinematografico, Roma, Carocci, 2006, p. 34.

2 Martin Lefebvre, Landscape and Film, New York – London, Routledge, 2006, p. XI. Traduzione dell’autore.

3 Barbara Grespi, Cinema e montaggio, Roma, Carocci, 2010, p. 124.

4 Cfr. Richard Dyer, The Wind in Fellini <https://vimeo.com/8425475> [ultimo accesso 20 marzo 2017].

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