Nicole Bagnaschi, psicologa e danzaterapista |
L’essere umano è come un ostello,
ogni giorno c’è un nuovo arrivo.
La gioia, la tristezza, la meschinità,
una momentanea consapevolezza,
arrivano tutti come un ospite inaspettato.
Accoglili e dai a tutti il benvenuto!
Anche se sono una folla di tristezza,
che mettono a soqquadro la casa
fino a svuotarla di tutto il mobilio,
anche così, tratta onorevolmente tutti i tuoi ospiti.
Potrebbero aver ripulito tutto
per fare posto a una nuova gioia.
Il pensiero oscuro, la vergogna, la malizia,
accoglili sorridendo alla porta e invitali ad entrare.1
In quest’ostello che siamo noi, un ospite inatteso, a volte temuto è proprio il vuoto. Quando le persone si rivolgono a uno psicologo raccontando di stare male queste sono le preoccupazioni che come una costante spesso ritornano: “La mia vita non ha più senso, niente mi dà più piacere né dolore.” Una perdita di riferimenti, di appigli, di ragioni. Un totale disorientamento che invade a poco a poco ogni ambito. Un vuoto esistenziale. Uno smarrimento che non appartiene solo ad alcune tappe della vita (ad esempio all’adolescenza come comunemente si pensa), ma a ogni stagione della vita. Questo tipo di crisi in età adulta pare ancora poco compresa e se non trova una giustificazione in un problema concreto (una separazione, la perdita del lavoro, un lutto, un evento traumatico), sembra non avere motivo di esistere. Viviamo nella società del “pieno”:
La malattia di chi vive in un continuo mentale occupato da un vorticare di parole smozzicate, di immagini stolidamente ricorrenti, di inutili e infondate certezze, di timori formulati in sentenze prima che emozioni.2
Pieno è il nostro tempo fatto di tanto lavoro, di progetti, di obiettivi. Pieni sono il nostro spazio, la nostra casa, il luogo dove lavoriamo, che arricchiamo di medaglie, di collezioni, di tutto ciò che ci serve e anche di quello che non ci serve. Abbiamo tutto e desideriamo tutto. E non è mai abbastanza. Il vuoto viene comunque a trovarci di tanto in tanto. Possiamo ignorarlo, girandoci dall’altra parte, reprimendolo. Oppure possiamo guardarlo, possiamo ascoltarlo, possiamo darci il permesso di accoglierlo. Fa paura. Il vuoto fa molta paura, perché ogni volta che viene a trovarci porta con sé qualcosa di nuovo, di sconosciuto, quella parte di noi che ancora non abbiamo visto, oppure quella che non vogliamo accettare. La paura di prendere coscienza del vuoto può congelarci a tal punto da non farci mai essere veramente noi stessi, timorosi di quello che potrebbe succedere se prendessimo il coraggio di accoglierci tutti interi. Il rischio, allora, è quello di cadere in un’anestesia emotiva, che non ci permette di vivere a fondo questo terrificante vuoto, impedendoci, però, al contempo di vivere a fondo anche l’incontenibile eccitazione per un nuovo progetto o la felicità delirante di una conquista inattesa.
Quanto il vuoto rappresenta un rischio? Quanto una possibilità?
Il vuoto è di per sé una condizione che appartiene all’umanità. In effetti, il senso di vuoto è uno degli aspetti mentali più complessi e si può descrivere lungo un continuum che spazia tra una tipica e normale esperienza dell’essere umano, fino a diventare una condizione patologica di smarrimento nella percezione di sé.
La sensazione di vuoto si riscontra, con sfumature diverse, in alcuni quadri psicopatologici. Il vuoto è l’elemento chiave del Disturbo narcisistico di personalità. Nel mito di Narciso viene descritto come un peregrinare senza scopi e passioni, il cui sentimento di noia e insoddisfazione pervade tutto il sé. Secondo Otto Kernberg3, la dinamica narcisista può essere considerata un processo in cui un’idea grandiosa di sé e il sentimento di orgoglio che ne deriva proteggono da un senso di vuoto e di mancanza di significato. Nel Disturbo depressivo il vuoto è una conseguenza della perdita dell’oggetto amato4 e della successiva presa di coscienza dell’incapacità di recuperarlo. Nel Disturbo borderline di personalità il vuoto fa da cornice a una instabilità che si manifesta sia sul piano emotivo che cognitivo e comportamentale. Il boato del vuoto si riscontra anche nei Disturbi del comportamento alimentare. Da un lato, è il vuoto dentro di sé, che si cerca di combattere restringendo l’alimentazione, dall’altro, è un grido di aiuto, la punta di un iceberg che lascia intravedere una sofferenza devastante legata alla propria autostima e al bisogno di affetto.
Tuttavia, il vuoto non è di per sé una sensazione patologica e negativa, ma una condizione che appartiene all’esistenza e coinvolge tutti quale condizione comune e umana. Di fatto, è proprio dove dilaga il vuoto esistenziale, dove la volontà di significato viene frustrata, dove mancano un senso e una direzione concreta, che gli esseri umani tendono a fare cose senza senso, come intraprendere imprese senza una motivazione intrinseca e autentica, o come tessere relazioni senza concedersi la possibilità di un coinvolgimento reale.
Al contempo il vuoto rappresenta quell’imprescindibile condizione che permette di crescere ed evolvere. Chi ha permesso l’evoluzione dell’umanità non è altro che qualcuno che ha avuto il coraggio di accogliere l’incerto, di indagare il mistero. L’esperienza del vuoto sembra chiamarci a questo: a indagare il mistero che ci abita. Non tutto insieme. Un pezzettino per volta. A tempo debito. Quella parte di noi da cui il vuoto giunge, conosce la strada e offre uno spazio, vuoto appunto, per stare con noi, per dare voce a tutto ciò che in noi non è razionale, non è controllato: quella parte autentica, quell’arte che si svela nel corpo, tramite il corpo, le sensazioni e i sogni.
Ma da dove viene questo vuoto? Perché il corpo ricorre al vuoto?
Spesso abbiamo desideri che non ci autorizziamo a coltivare, abbiamo paura di chiedere troppo, oppure siamo infelici e abbiamo paura di ammetterlo a noi stessi perché temiamo di allontanarci da quella rassicurante zona di comfort costruita negli anni. Spesso siamo i nostri giudici più severi, ci carichiamo di responsabilità pesantissime o di aspettative esasperate. Queste censure ai nostri profondi bisogni e desideri che per educazione, percorsi o necessità ci infliggiamo, non cancellano, ma opprimono quella parte di noi che di tanto in tanto torna a rivelarsi.
Per comprendere l’esperienza del vuoto si può ricorrere a un’immagine: le montagne russe. In particolare al momento prima della discesa, quel tempo che precede l’arrivo di una strana e spesso temuta sensazione in cui si percepisce un senso di incertezza e irrequietezza. Quando il vagone inizia a rallentare e, quasi fermi, si guarda giù. Si vorrebbe scappare, slacciarsi le cinture e tornare indietro, consapevoli tuttavia che ormai è troppo tardi. E prima che si abbia il tempo di pensare a qualsiasi via d’uscita ecco che il vagone accelera e ci porta giù con la velocità di un razzo, giù fino al profondo.
Manca il respiro, il cuore sembra fermarsi, si grida aiuto o si resta senza voce e ci si sente spinti da una forza superiore, sopraffatti dalle emozioni, dall’ignoto che ci attende dietro a ogni curva, oltre ogni giro della morte, fino a quando scossi dall’intensità del viaggio il vagone si ferma e si tira un sospiro. Ci si rende conto di essere ancora vivi e subito dopo una scarica di adrenalina ci fa percepire tutti interi e eccitati, nuovi e pronti con la voglia di fare un altro giro.
Quanto coraggio serve per attraversare il vuoto? Quanta paura? Abbiamo davvero scelta?
Sì, abbiamo scelta. Possiamo ignorarlo il vuoto, ma non cancellarlo. Oppure possiamo ascoltarlo. “Il buio, il vuoto, il nulla: sono metafore di una dimensione ancestrale in cui la vita si ri-partorisce”.5 Sentire il vuoto è una sensazione che crea inquietudine, paura, terrore, tristezza, ma che rappresenta il preludio alla trasformazione di un individuo in persona, capace di un progetto di vita gratificante e costruttivo.
Esiste un modo per proteggersi?
Sì, esiste. Ognuno trova il proprio. Al giorno d’oggi la tendenza che va per la maggiore è quella di recuperare quel sapere antico riconducibile alla cultura orientale attraverso metodi come la meditazione, lo yoga, o i pellegrinaggi. La psicologia positiva del buddismo invita a essere benevolenti, a concentrarsi nel presente senza giudizi e aspettative. Quel che conta è prendere consapevolezza delle proprie risorse, distaccarsi da ciò che è accaduto in passato e accettare ciò che non si può modificare; comprese l’ambiguità, l’incertezza e la complessità dell’esistenza. La stessa psicologia si pone proprio questo come obiettivo, sostenendo la persona che attraversa una crisi, prendendosi cura di lei, proteggendola dalle paure e aiutandola a scoprire la sua forza, accompagnandola a trasformare i propri timori in “sì, posso”. Affrontare il vuoto, allora, non è altro che una scelta d’amore verso se stessi, chiamati dal profondo a prenderci più cura di noi, a volerci più bene. “Le tue sensazioni di mancanza possono trasformarsi in sensazioni di ‘disponibilità’ se dentro di te crei uno spazio vuoto per accogliere ciò che desideri.”6
Vuoto come spazio
Il vuoto è un’esperienza che si manifesta prevalentemente attraverso il corpo. Che lo ascoltiamo o no, il corpo trova sempre la strada per esprimersi, attraverso sensazioni e dolori. Una metodologia che utilizza il corpo come strumento principale di cambiamento è la Danza creativa di Maria Fux. Questa tecnica nasce dall’esperienza dell’omonima danzatrice e coreografa argentina, pioniera della danza contemporanea che, lavorando con gruppi di ogni età, ha concepito un metodo artistico che utilizza la danza per promuovere un maggiore benessere psicofisico tanto in persone normodotate che in persone con disabilità o patologie specifiche.
La Danza creativa di Maria Fux utilizza forme libere di danza volte all’espressione di sé e risalta per essere un metodo artistico che non formula giudizi interpretativi sul “modo di muoversi”, non si basa su contenuti psicoterapeutici ma su valori osservabili riferiti all’impulso interiore e al movimento. Il gesto, la postura e le immobilità della persona trovano ascolto. Si possono stimolare quelle parti addormentate o dimenticate del corpo che, messe in movimento secondo il protocollo del metodo, possono generare un cambiamento e migliorare il benessere psicofisico della persona in un’ottica di completamento. Durante un incontro di Danza creativa, il conduttore propone sempre una tematica universale come il vuoto, il tempo, lo spazio, il ritmo, e lo fa attraverso l’utilizzo di parole madri. Queste sono ponti di comunicazione, sono parole che muovono e che risuonano dentro ciascuno. Ipotizzando di condurre un gruppo a sperimentare l’incontro con il vuoto (inteso come tematica universale che tuttavia risuona in ciascuno in modo personale), queste potrebbero essere le parole guida:
Ascolto il vuoto che sento nel corpo, in un punto specifico. Un punto che fa male, un punto che grida o che consiste in un assordante silenzio. Con la musica provo a muoverlo un po’, avanti e indietro, girando su me stesso, da in piedi, da seduto, da sdraiato. Provo a muovermi piano, poi sempre più veloce seguendo la musica. Adesso provo a muovermi nel silenzio, con la mia musica interiore, chiudendo gli occhi, ascoltando il mio respiro e posando le mani sul cuore per percepirmi meglio. Ora apro gli occhi, lo porto fuori da me, lo guardo. Prima da lontano, trovando quella giusta distanza che mi permette di incontrarlo con minor paura, di vederlo più piccolo e con maggior leggerezza. Poi mi avvicino per ascoltarlo meglio…7
L’attivazione del corpo attraverso l’uso delle parole è parte fondamentale del metodo elaborato dalla Fux che così ne descrive il potenziale:
Credo che le possibilità di incontro con le parole madri siano infinite, come gli stati emotivi che possiamo sviluppare con la vita. Soltanto osservandoci e imparando a conoscere la nostra creatività, le nostre possibilità, possiamo incontrare quelle parole madri che sono vive dentro di noi, cercando i nostri ritmi per continuare a crescere con verità.8
Osservando molte danze di adulti, bambini, danzatori professionisti e persone che credono di non saper danzare, ogni volta si resta colpiti dalla chiarezza comunicativa del corpo. Il corpo, lasciato libero di muoversi, mostra ogni verità. E la musica è una sua grandissima amica: arriva portando leggerezza e profondità, allegria e tristezza, evasione e ascolto. La Danza creativa è solo un esempio di come musica e corpo possano incontrarsi, ma soprattutto di come l’individuo possa incontrare se stesso nel corpo attraversato dalla musica. È solo una possibile strada per far fronte alla paura che automaticamente emerge nei momenti di grandi e piccoli cambiamenti nella nostra vita. Qualunque sia il metodo o l’approccio scelto una cosa è certa, vale sempre la pena di incontrarsi. Incontrarsi significa conoscersi, e conoscersi ci porta a scoprire forze sconosciute, desideri taciuti, permettendoci di essere davvero liberi e di vivere in modo autentico. Quello che si impara dall’attività di psicologo è che per ognuno c’è un tempo, uno spazio, una o infinite verità da scoprire lungo il cammino. Il cammino è lungo e la felicità non è per sempre, ma neanche l’infelicità è per sempre.
Non se ne può fare a meno, è la vita stessa che è fatta di alternanze. Di buio e di luce, come il giorno e la notte, del succedersi delle stagioni e del rinnovarsi dei cicli della natura… Ma anch’io ormai so di appartenerle e di potermi fidare di lei […].9
1 Yalal al-Din Rumi, La casa dell’ospite, in Consuelo C. Casula, La ciotola d’oro: vivere il presente, apprendere dal passato, progettare il futuro in terapia, Milano, Mimesis, 2017, p. 13.
2 Roberto Calasso, La follia che viene dalle Ninfe, Milano, Adelphi, 2005, p. 72.
3 Otto F. Kernberg, Borderline Conditions and Pathological Narcissism, New York, Jason Aronson, 1975.
4 A questo proposito si veda Norman Epstein, “Depression and Marital Dysfunction: Cognitive and behavioral linkages”, International Journal of Mental Health, n. 13.3-4, 1984, pp. 86-104.
5 Raffaele Morelli, Ciascuno è perfetto: l’arte di star bene con se stessi, Milano, Mondadori, 2005, p 23.
6 Ruediger Schache , Il progetto segreto della tua anima, Cesena, Macro edizioni, 2010.
7 Maria Fux, Frammenti di vita nella danzaterapia, Pisa, Edizioni del Cerro, 1999, p. 187.
8 Ibidem
9 Maria Sole (testimonianze di ex-bambini arrabbiati), “Le cose che ho imparato andando per strada…”, in Alba Marcoli, Il bambino arrabbiato: favole per capire le rabbie infantili, Milano, Mondadori, 1996, p. 332.